Marcello Zanatta

M. BORRELLI, Lettere a Kant, Cosenza, Pellegrini Editore 2005, pp. 134.

L’ultimo decennio, accanto a eccellenti edizioni in lingua italiana di opere di Kant (basti pensare alla nuova edizione della Critica della capacità di giudizio, redatta da Leonardo Amoroso, Rizzoli 1995 e alle Lezioni di Filosofia della Religione, redatte da Costantino Esposito, Napoli, Bibliopolis 1998)  ha visto, in Italia, anche la pubblicazione di importanti e interessanti studi su Kant, redatti con intento – diciamo così – teoretico, volti come sono a un confronto in presa diretta e in prima persona con il grande pensatore tedesco.

Si deve peraltro osservare che un pensatore come Kant prende totalmente chi vi si accosta. Tanto che anche certe monografie, come quella – eccellente e precisissima nell’esposizione dei contenuti – di Sofia Vanni Rovighi (2a ed., Brescia, La Scuola 1969), che hanno un indubbio carattere storiografico, non mancano tuttavia di esprimere giudizi critici, ancorché scritti, nel caso di specie, in corpo editoriale più ridotto, a indicare il tono sommesso del rilievo, fatto quasi in punta di penna di fronte all’imponenza dell’edificio teorico eretto dal grande filosofo ed esposto dalla studiosa.

Non c’è dubbio che una tale dovizia di recentissimi studi su Kant sia un segno del forte interesse che oggigiorno ancora suscita il pensiero di questo filosofo. Un interesse che sembra andare ben al di là di quello che negli anni ‘70-80 spingeva autori come Manfred Riedel a rivolgersi a Kant come a uno degli assi portanti e dei punti di riferimento focale, assieme ad Aristotele, nella cosiddetta riabilitazione della filosofia pratica. In Kant e l’ornitorinco (Bologna, Il Mulino 1991), Umberto Eco istituisce un confronto di pensiero con Kant che serve a mettere a fuoco quali aspetti della cultura contemporanea non troverebbero immediatamente una collocazione teorica, e dunque una esplicazione sul piano filosofico, nel quadro della dottrina della conoscenza tracciata dal filosofo di Könisburg. Dunque, una ripresa del kantismo, ma con intento critico e rinnovatore, che, in buona sostanza, finisce per portare «oltre Kant sia pure attraverso Kant», come ebbe a scrivere, per esempio, Massimo Cacciari in una densa recensione di questo volume. Parallelamente, in Goodbye Kant (Milano, Bompiani 2004), Maurizio Ferraris intesse una serrata analisi della Critica della Ragion Pura al fine di mettere a nudo l’equivoco teorico che sorregge l’impianto pur formidabile e portentoso di quest’opera: l’essersi cioè il grande pensatore tedesco rivolto all’esperienza così come lo scienziato newtoniano nel suo laboratorio si rivolgeva all’esperimento, ritenendo che anche l’esperienza ordinaria sia una costruzione, la quale abbisogna, perciò, di un intervento del soggetto, come per l’appunto l’esperimento scientifico abbisogna di criteri di misurazione e di controllo dei dati. Kant, insomma, avrebbe esteso all’esperienza, un’impostazione epistemica adatta alla costruzione della scienza fisico-matematica, sovrapponendo in un certo senso l’idea di scienza a quella di esperienza.

Ebbene, nelle sue Lettere a Kant, Michele Borrelli si accosta al pensatore tedesco con atteggiamento non dissimile, e si colloca in questo lungo un’appassionante linea d’interventi critici nei confronti del grande filosofo.

“Critici”, perché anche Borrelli sottopone la filosofia kantiana a un serrato esame e trova che il suo punto nodale, individuato nell’idea di trascendentalità, costituisce un aspetto risolutivo e irrinunciabile per chiunque intenda fare filosofia, ma al tempo stesso è inadeguato e insufficiente nella “prospettiva soggettivistica” in cui l’ha delineato Kant. Il “trascendentale” kantiano, si sa, è ciò che attiene alle condizioni di possibilità: nella prefazione alla prima edizione della Critica della Ragion Pura Kant espressamente scrive: «chiamo trascendentale ogni conoscenza che si occupa non già dell’oggetto, ma del nostro modo di conoscere l’oggetto, in quanto dato a priori». Come condizione a priori costitutiva dell’oggetto, il trascendentale è universale e necessario, e proprio per questo nella costruzione del sapere ha innanzitutto e primariamente una funzione determinante: conoscere per Kant è giudicare, e il giudizio è possibile in quanto una pluralità di impressioni sensibili ordinate spazialmente e temporalmente viene unificata dall’intelletto in modo da formare l’oggetto. Questo è dunque una costruzione, e la trascendentalità indica per l’appunto l’attività “costruttiva”, cioè unificatrice dell’intelletto stesso, che pertanto si pone come legislatore della realtà in quanto definisce le condizioni universali e necessarie della sua possibilità. Ma proprio qui, ad avviso di Borrelli, risiede anche un primo aspetto inaccettabile del kantismo: è ben vero, dice Borrelli, che il trascendentale è l’apriori che rende possibile la conoscenza nella sua universalità e necessità, ma è “aporetico” (sic !; p. 10, per esempio) che si tratti di una struttura della soggettività, sia pure non individuale ed empirica, ma universale e per questo legislatrice. Perché il trascendentale assolva pienamente alla sua funzione, deve pertanto essere sottratto a una tale portata “soggettivistica” e “solipsistica”, ed essere consegnato invece a una struttura che adeguatamente garantisca l’universalità del suo essere condizione di ogni conoscenza.

Un secondo limite dell’idea kantiana di trascendentalità Borrelli riscontra nel contrasto che s’istituisce, da un lato, tra la distinzione d’intelletto e ragione, teorizzati rispettivamente come facoltà del finito e facoltà dell’incondizionato e, dall’altro, l’intendimento kantiano – l’anelito, si sarebbe tentati di dire – di superare questa scissione e recuperare l’unità del pensiero. In Kant, infatti, scrive Borrelli si trova «un concetto unitario, o meglio un unico interesse conoscitivo che in definitiva è la ragione medesima», ma d’altro canto vige la «differenziazione (trascendentale) della ragione umana nelle forme specifiche […] di intelletto (Verstand) e ragione (Vernunft) come due forme di coscienza diverse» (p.15). Altrove l’autore pone l’accento sulla “autosintonia (Selbststimmigkeit)” della ragione quale somma aspirazione di Kant, destinata però a rimanere frustrata dalla «separazione rigorosa e inconciliabile di Vernruft e Verstand» (p. 10).

A questa seconda “aporia” segue una terza, la quale tocca «l’ambito della fondazione etica» (p. 10), irrimediabilmente compromessa dall’incolmabile divisione tra sfera fenomenica e sfera noumenica, conseguente alla «suddivisione/distinzione di ragione teoretica e ragione pratica» (p. 10).

Ebbene, prospettate così le difficoltà che la concezione kantiana del trascendentale porta seco, ai livelli cui abbiamo accennato, Borrelli nelle cinque lettere prospetta quali a suo vedere possono essere le soluzioni.

Vi è subito da rilevare che la soluzione di fondo è indicata nella teoria apeliana della prammatica comunicativa, di cui Borrelli sottolinea marcatamente tanto la continuità con l’istanza kantiana dell’Io penso quanto il superamento di essa. Il momento di continuità consiste nel fatto che la prammatica comunicativa, chiamando in causa una comunità di soggetti che dialogano e argomentano sulla base di un sistema di significati loro pre-dato, istituisce, con essa, la condizione trascendentale di possibilità della ragione, così come l’Io penso funge da condizione trascendentale di possibilità delle conoscenze intellettive. Il momento del superamento è espresso, in ultima analisi, dalla capacità ermeneutica di detta prammatica: nella capacità, cioè, che strutturalmente le compete di garantire sul piano trascendentale il reciproco coinvolgimento del soggetto comunicante e del sistema di significati che rende possibile la comunicazione e che, a sua volta, si pone in gioco in ogni atto conoscitivo; ovvero, essendo un tale sistema di significati espresso dall’intersoggettività del linguaggio, dalla capacità di garantire una tale intersoggettività sul piano, per l’appunto, delle condizioni di possibilità del conoscere stesso, oltrepassando in tal modo quello che Borrelli chiama il «solipsismo» della ragione kantiana (p. 47).

In questa cornice, la prima lettera espone la trasformazione trascendental-prammatica della filosofia kantiana operata da Apel, illustrando con dovizia d’annotazioni teoricamente interessanti i capisaldi del pensiero di quest’ultimo. Il punto nodale è espresso, mi sembra, dalla sottolineatura secondo cui «Apel si serve di un apriori dialettico, cioè dell’intreccio dell’apriori dell’idealità e dell’apriori della fattualità» (p. 31), nonché dalla possibile apertura alla metafisica che un tale apriori permette, nella misura in cui esso, in buona sostanza, si traduce in un sistema di regole linguistiche pre-date all’argomentare, e «le regole dell’argomentare premettono (sic !, meglio presuppongono) sempre già un tipo di certezze paradigmatiche a priori» (p. 37). Ecco dunque l’affacciarsi della possibilità della metafisica sul piano conoscitivo in un siffatto «tipo di certezze paradigmatiche a priori». Ancorché, s’intende, non si tratti di una metafisica del trascendente, sibbene di una metafisica quale sistema di punti saldi e d’acquisizioni certe che garantiscano la conoscibilità dell’esperienza e l’oggettività delle conoscenze intorno a essa: una sorta, oserei dire, di ontologia forte della conoscenza dell’ente in quanto ente.

La seconda lettera illustra come la prammatica della comunicazione permetta la fondazione delle scienze sociali e dell’ermeneutica. Anche qui s’affaccia come punto nodale di tutta l’analisi, la tesi secondo cui ciò che rende possibile una tale fondazione è il superamento dell’«astrattezza» della nozione kantiana di intelletto. «Il tuo intelletto – scrive infatti Borrelli, rivolgendosi a Kant – è alquanto astratto, direi quasi autonomo e indipendente dai soggetti umani come se esso fosse una cosa quasi a sé stante» (p. 54).

Nella terza lettera Borrelli chiarisce in che cosa consiste l’etica del discorso. Emerge l’idea – a mio avviso molto ben centrata – che il discorso come tale è un orizzonte di eticità in quanto è un ethos, un sistema di sensi e di regole espressive in cui «soggiorna» il soggetto comunicante e, dunque, gli è «abituale». Insomma, l’eticità del discorso non indica affatto una dottrina morale che ha per oggetto il discorso (genitivo oggettivo), bensì l’essere il discorso stesso un ethos in quanto apriori linguistico e al tempo stesso ermeneutico nel quale il soggetto si trova da sempre collocato. Nella prospettiva di una tale eticità del discorso, Borrelli, sulla scorta di Apel, ma sul punto specifico andando anche al di là di Apel, rintraccia addirittura una valenza pre-comunicativa dell’Io penso kantiano. Egli parla, infatti, del tradursi dell’«unità pre-comunicativa dell’Io penso in una unità di validità intersoggettiva di conoscenza formulata linguisticamente» (p. 87). Se si supera la durezza di queste espressioni, che marcano un andamento più prossimo alle cadenze del tedesco che non a quelle della buona lingua italiana, si riesce a scorgere lo sforzo di Borrelli di leggere l’Io penso kantiano in chiave ermeneutica, di individuare cioè già in esso, al fondo della sua valenza teorica, la condizione trascendentale di possibilità della comunicazione e del linguaggio.

La quarta lettera affronta l’arduo e impegnativo tema della necessità di razionalità nell’era della civilizzazione tecnico-scientifica, facendo emergere che si tratta di un’esigenza universale, che può sperare di trovare soddisfazione non nella relativizzazione dei saperi, ma nell’opposto progetto di una ricerca delle condizioni apriori, cioè universali e necessarie, della loro fondazione e al tempo stesso nel comune riconoscimento della loro validità da parte di tutti i soggetti della comunicazione planetaria.

La quinta lettera, infine, argomenta su uno dei punti nodali di ogni etica, venuto in primo piano fin dalla riflessione di Socrate, ossia il rapporto con la conoscenza. Il concetto di fondo fatto valere da Borrelli è che l’idea di verità non può cristallizzarsi in una nozione, ma deve fungere da idea regolativa. Come tale, l’esigenza di verità si traduce in un’esigenza di giustificazione, la quale ha carattere trascendentale sia sul piano cognitivo, perché permette l’avvistamento della direzione lungo la quale deve orientarsi ogni conoscere, sia sul piano operativo, perché indica la necessità di dar conto dell’operare stesso, sottraendolo a ogni possibile sviamento irrazionalistico. Proprio nella capacità di far incontrare sul piano regolativo la necessità di giustificare il conoscere e quella di giustificare l’agire e le scelte, l’idea di verità può costituire un momento d’incontro ineludibile tra i due ordini di riflessione filosofica, lasciando in tal modo intravedere, in prospettiva, quell’identità tra essere e bene che costituisce la meta di ogni metafisica, a partire da quella platonica.

Il carattere colloquiale scelto da Borrelli per rivolgersi a Kant – in linea con la finzione letteraria di un invio di “lettere” – giustifica l’uso di un linguaggio che, nell’intento di comunicare “in presa diretta”, come per l’appunto si fa quando si scrive a un amico, oltrepassa talvolta le consuetudini della lingua italiana: fin a partire, dopo la Premessa, dalla prima parola dello scritto: «delineamento» del problema (sic ! p. 15) in luogo dell’usuale «delineazione». Ma se si supera quest’aspetto – che, ripetiamo, denota innanzitutto e primariamente la scelta di una comunicazione dal tono familiare, con tutti i pregi, ma anche tutti i rischi a essa connessi -, ci si avvede dell’impegno teoretico che sorregge l’analisi di Borrelli nella stesura dell’intero volume. Un impegno per il quale queste “lettere” vanno poste sullo stesso piano dell’ornitorinco e del saluto amichevole (goodbye) con i quali Eco e Ferraris si sono a loro volta intrattenuti con Kant, giacché, al pari di questi, hanno fatto del confronto con Kant non l’arida materia di una ricerca soltanto erudita, sibbene la proficua occasione di un esercizio di pensiero.