di Michele Borrelli
È un dato di fatto, e quindi certamente incontestabile, che a partire soprattutto dalla modernità, assistiamo non solo al conflitto, ma via via crescente all’efferato scontro tra scienza e religione, tra razionalità scientifica (intesa oggi nel senso di Max Weber come disincanto del mondo) e credenza o fede. In questo conflitto o scontro radicalizzato delle posizioni non si capisce bene se c’è ancora bisogno di Dio o se la scienza stessa non debba essere o sia già il nuovo Dio. Formulo, dunque, alcune domande non solo per entrare nel tema del dibattito che ci vede qui riuniti, ma anche e soprattutto per entrare nel vivo degli interrogativi a cui Benedetto XVI cerca di trovare una risposta col suo libro Gesù di Nazaret. Le domande sono certamente tante: - L’uomo, la filosofia possono fare a meno del concetto di Dio? - La storia dell’umanità è storia casuale e della contingenza o è storia che al suo interno segue uno scopo universale, un disegno (divino), un finalismo razionale? In altri termini: la realtà è, nel senso di Darwin, creata dal caso per cui non c’è nessun Dio, nessun fine ultimo? L’origine della vita è accidentale o segue una ragione (divina) intrinseca alla storia (dell’umanità)? - Vale l’interpretazione che i princìpi morali e l’etica non sono se non un prodotto dovuto all’azione della selezione naturale? - La realtà di cui noi tutti facciamo esperienza è l’unica assoluta, increata o meglio autogenerata per forza naturale, intrinseca, caotica e senza leggi? - O vale quanto asserisce Benedetto XVI in riferimento alla Sacra Scrittura e cioè che l’unico assoluto è Dio; che tutto dipende da Dio e che senza Dio per l’essere umano non c’è senso esistenziale, ma solo il baratro dell’assenza di senso e quindi il nichilismo? A queste domande si lega ovviamente il concetto di verità nel doppio senso com’è venuto generandosi a partire dalla modernità: per un verso la verità in senso scientifico, per altro verso, la verità nell’unione col sacro che Benedetto XVI reinterpreta alla luce della sua ricostruzione di Gesù di Nazaret. Questo modo antitetico di intendere la verità si articola in due prospettive. Da prospettiva laica (o per la scienza moderna empirico-sperimentale), dove c’è scienza non c’è fede e viceversa: dove c’è fede non c’è scienza. Da prospettiva confessionale, cristiana o meglio cattolica: dove non c’è fede non c’è vera conoscenza ovverosia: dove non c’è fede non c’è verità o senso né speranza per la nostra esistenza. Gli interrogativi sono allora sostanzialmente due: la scienza è l’unica istanza e fonte di verità (questa è la posizione filosofica laica), o può la fede reclamare, a sua volta e forse anche e a maggior ragione, il fondamento (ultimo) della verità? (Questa è la posizione teologica del “Gesù di Nazaret” di Benedetto XVI e della corrente confessionale o cattolica in generale). Queste due prospettive aprono ad un conflitto che si protrae da secoli e di cui non solo non sembra spuntare all’orizzonte alcuna soluzione, ma, nel postmodernismo accentuato dei nostri giorni, il conflitto sembra acutizzarsi talmente che al dialogo è seguito lo scontro tra fede e ragione Come possiamo spiegarci il fatto che dall’incontro siamo passati allo scontro tra fede e ragione? Penso che siamo passati dall’incontro allo scontro tra fede e ragione per il fatto che a partire dalla modernità prevale un concetto empiristico di scienza. Un concetto in cui prevale lo spiegare (delle scienze fisico-naturali) e non il comprendere delle scienze spirituali o ermeneutiche. In poche parole, la scienza, secondo l’idea moderna di scienza, è tanto più vera quanto più riesce a spiegare e a dimostrare, ma non quanto più riesce a comprendere. Il prevalere di un concetto strettamente empiristico di scienza non giova alla conciliazione tra ragione e fede. Il conflitto tra ragione e fede è in sé vecchissimo e non ha poi bisogno di nuove scoperte. Già Sant’Agostino e San Tommaso avevano cercato, con interpretazioni illuminanti e da prospettive diverse, di risolvere questo scontro e di tradurlo in un incontro armonioso. Sant’Agostino riteneva la filosofia cristiana l’unica fonte di verità: fonte vera o meglio fonte verissima e quindi fonte di evidenza indiscutibile, per cui non poteva e non doveva esserci alcun conflitto tra ragione e fede, in quanto la fede non solo non sarebbe un limite o un ostacolo al dispiegarsi della ragione anche scientifica, ma sarebbe addirittura il presupposto stesso di ogni ricerca razionale. Presupposto che, per Sant’Agostino, non andrebbe ricercato all’esterno nell’indagine scientifica, ma all’interno o profondo dell’uomo, nella coscienza o interiorità dell’uomo. San Tommaso, questo grande filosofo del pensiero cristiano, discuterà ampiamente la separazione tra fede e ragione, ma allo stesso tempo non trascurerà di portare alla luce il rapporto inaggirabile tra fede e ragione. Infatti, se diamo ascolto a San Tommaso, l’uso retto della ragione non conduce a conclusioni che contrastano la fede, né la fede si pone in contrasto con la ragione. Fede e ragione lavorano sì da prospettive diverse, ma lo scopo è lo stesso: la verità, ed essa è una sola. Come per Sant’Agostino e San Tommaso anche per Benedetto XVI, la verità in ultima analisi è Dio. O meglio: la verità ha il suo compimento ultimo, definitivo in Dio. Ma sia la conclusione agostiniana che la conclusione tommasiana troveranno nell’avvento della modernità e nel prevalere o assolutizzarsi del metodo empirico il loro Anticristo. La scienza (sperimentale) metterà a soqquadro la logica platonico-cristiana della creazione o meglio l’idea che la storia sia l’avvento della morte e della resurrezione di Cristo, ovverosia: lo svolgersi di Dio nel tempo e l’imporsi dell’amore come tempo eterno o regno di Dio. La modernità pone fine, o meglio pensa di poter porre fine al mito del sacro. Che le cose non siano poi così facili, penso sia stato chiarito addirittura da Jürgen Habermas nel suo dialogo con Joseph Ratzinger organizzato dall’accademia Cattolica di Baviera nel 2004. Rimaniamo comunque nel contesto dei compiti della modernità. La modernità, secolarizzata, pensa, infatti, di ritenersi emancipata dal divino; anzi, si pone come compito l’emancipazione dal religioso. Indubbiamente, l’obiettivo è demitizzare il pensiero liberandolo dai sistemi ontologico-metafisici: scristianizzare il pensiero, potremmo dire situandolo nella pura ratio. In altri termini, dovremmo parlare di verità solo come dimostrazione empirica; verità come giudizio di fatto e non come giudizio di valore (la separazione è del sociologo Max Weber). Alla domanda: può l’uomo vivere senza Dio, ovverosia, alla domanda può la filosofia fare a meno di Dio?, la modernità risponde che gli strumenti della verità sono le regole metodiche e non la credenza o una fede religiosa. Per la modernità verità è solo ciò che è dimostrabile empiricamente, non a caso i criteri per la ricerca della verità non sono situati nell’interiorità dell’uomo come in Sant’Agostino o su un piano metafisico-esterno come l’idea di Dio, ma si dispiegheranno nella sperimentazione e nella misurazione. Solo ciò che troverà riscontro empirico, solo ciò che potrà essere empiricamente convalidato intersoggettivamente potrà elevarsi o avanzare a pretesa di verità (scientifica). La filosofia di Hume cercherà di dimostrare, ma da questo punto di vista empiristico non era poi difficile, l’impossibilità (empirico-razionale) dell’idea o esistenza di Dio. Non potevano esserci dubbi che Dio non essendo un oggetto o un fenomeno naturalistico si sottraeva a controlli empirici e non poteva essere indagato con procedure empirico-scientistiche: di qui si poteva certo formulare l’inesistenza di Dio. Dal positivismo classico alla Scuola neopositivistico-logica di Vienna, la via del sapere vero rimane l’induzione e il procedimento della verifica empirica. Ma anche la deduzione proclamata dal razionalismo critico di Popper non riproduceva se non un fisicalismo empiristico e non dava nessun supporto all’esistenza di Dio. Ma prima ancora dei neopositivismi più recenti o passati, già Immanuel Kant si era posto come criterio non una istanza esterna divina o sacra, ma il criterio del sapere aude, la fiducia cioè nella ratio umana e alla domanda “cos’è l’Illuminismo” aveva conseguentemente risposto: l’illuminismo è l’uscita dell’uomo dallo status di minorità imputabile a se stesso. Non c’è bisogno di rimarcare che, a partire dalla modernità, si parla di verità come compito della ratio umana, indipendentemente dall’idea di una ragione divina. Se seguiamo poi l’impostazione di Nietzsche, ci troviamo davanti all’affermazione forte e provocante, secondo la quale: Dio è morto. Certo, e a dire il vero, per Nietzsche, nemmeno si trattava di contestare l’esistenza o meno di Dio, piuttosto di chiedersi se, e fino a che punto, possiamo ancora leggere la storia dell’uomo in riferimento a Dio e all’idea di un disegno divino e universale. Per Nietzsche non ci sono dubbi che per leggere la nostra storia possiamo fare a meno di Dio, della religione e del sacro, tant’è che per lui bisogna riflettere su come rispondere all’avanzata del nichilismo, o meglio su come l’uomo può difendersi dal baratro della caduta dei valori, appunto dal baratro della mancanza di senso che segue alla morte di Dio. Nichilismo, ovverosia assenza di valori o fede? Si può notare che con la modernità (ciò vale in modo ancora più esplicito per l’odierna postmodernità) crolla (almeno da prospettiva laica o meglio laicista) l’idea che la religione (cattolica e non solo) possa essere nel vero e possa essere quindi una fonte universale di orientamento per la nostra vita presente o in prospettiva di futuro. In altri termini, da prospettiva laica o laicista, crolla l’idea che l’umanità, per la convivenza sociale o per la sua salvezza, abbia bisogno del senso religioso o del sacro o del divino. In ultima istanza: da prospettiva laica, crolla l’idea che per vivere bene noi abbiamo ancora bisogno del Gesù della fede. Perché? Perché malgrado Gesù, il male sulla terra non è scomparso. Quindi se vogliamo parlare di Gesù, dovremmo parlare del Gesù Storico o Gesù della storia (di questo parere sono per esempio Eugenio Scalfari e Flores d’Arcais). Da una prospettiva laica più accentuata, da una prospettiva direi heideggeriana, dovremmo addirittura accentuare il nichilismo in cui siamo sprofondati, affinché la consumazione del nichilismo o meglio l’accettazione di mancanza di valori ci liberi dal peso della metafisica, o meglio dalla violenza della metafisica di modo che, a partire da questa assenza di fondamento e di fini ultimi, si apra ad una convivenza guidata dalla situazione storica. Proprio in quest’ottica, per l’heideggeriano Gianni Vattimo, noi siamo ancora troppo poco nichilisti. Non siamo cioè ancora pienamente liberi da concetti metafisici, o meglio: non riusciamo a vivere bene la contingenza perché non siamo appunto ancora completamente nichilisti1. È facile notare in queste argomentazioni o meglio posizioni l’imporsi dell’idea nietzscheana della morte di Dio a cui accennavo in precedenza. L’idea cioè della necessità di un nuovo inizio dell’umanità. Inizio in cui si dovrebbe fare a meno di metafisiche, essendo esse comunque espressione di violenza e situarsi invece interamente su un piano storico o della contingenza. Contro questa desacralizzazione o scristianizzazione e il conseguente avanzare del nichilismo come accettazione della caduta e superfluità di valori, contro la messa in discussione del divino, contro la visione di una creazione a caso, di un mondo senza scopo e senza un fine universale, di un mondo e di una ragione che possono fare a meno del senso religioso e di Dio, contro la riduzione del senso della vita a pura contingenza storica, o meglio: contro la frantumazione di una ragione tutta situata all’interno di un concetto di verità empirico-sperimentale si era sollevata già la voce di Giovanni Paolo II, quando scriveva: uno dei “dati più rilevanti della nostra condizione attuale consiste nella ‘crisi di senso’ …”. “Noi − così Giovanni Paolo II − assistiamo all’affermarsi del fenomeno della frammentarietà del sapere. Proprio questo rende difficile e spesso vana la ricerca di un senso. Anzi - cosa anche più drammatica in questo groviglio di dati e di fatti tra cui si vive e che sembrano costituire la trama stessa dell’esistenza, non pochi si chiedono se abbia ancora senso porsi una domanda sul senso” 2. “L’intelligenza − concludeva Giovanni Paolo II − non si restringe all’ambito dei fenomeni soltanto, ma può conquistare la realtà intelligibile”3. Benedetto XVI nel suo tentativo di ricostruzione storica di Gesù di Nazaret ritorna sulla necessità dell’intelligibile, sulla necessità del sovrastorico, del noumenico (in senso kantiano). Ritorna cioè sull’istanza trascendentale o trascendente della ragione: ritorna cioè sul disegno divino intrinseco alla storia. Alla demolizione della metafisica generata dall’imporsi dello scientismo della modernità, alla caduta dei valori e all’irruzione del nichilismo, Ratzinger fa seguire la riabilitazione del metafisico. La fede, per Ratzinger, trascende i dati empirici e si rimette ad una verità assoluta, ultima, quindi fondante, ma non nel senso dell’oggettività empirica delle scienze fisico-naturali, ma per darsi ad una verità e ad un fondamento che è il bene morale il cui fine ultimo è Dio stesso. La verità di Ratzinger trascende l’empirico-fattuale per un richiamo per l’altro, potremmo dire con Levinas; per l’incontro con l’essere e più precisamente: per l’incontro con Dio (si potrebbe dire con Martin Buber). Se seguiamo Benedetto XVI, seguiamo quanto postulato nel Salmo (27, 8-9) “Di te ha detto il mio cuore: ‘Cercate il suo volto’; il tuo volto, Signore, io cerco”. Si può osservare: l’oggettività della verità non è situata nella prova empirica, ma in quest’incontro con l’essere che per Benedetto XVI è Dio. Se in Kant si reclamava il passaggio dal fenomeno al noumeno e in Heidegger il passaggio dall’ente (ontico) all’essere (ontologico), in Benedetto XVI si reclama il passaggio dal fenomeno al fondamento. Praticamente non potremmo arrestarci alla sola esperienza, alla realtà fenomenica, piuttosto dovremmo spingerci verso la struttura del nostro stesso pensare e cogliere il senso racchiuso nel linguaggio, ma non da angolazione heideggeriana desacralizzando o scristianizzando il linguaggio. Dovremmo, invece, spingerci verso le porte dell’essenza della ragione, verso le porte della parola di Dio, avvicinarci cioè al logos, vivere in conformità del Verbum. Ecco di nuovo: l’oggettività è nel logos, nella parola di Dio. La critica di Benedetto XVI è rivolta sostanzialmente contro uno scientismo che scalza dalle fondamenta l’idea stessa della ricerca di valori e s’impone come nichilismo, come negazione dell’esigenza metafisica dell’uomo (esigenza, tra l’altro ben riconosciuta anche dall’illuminista Kant, non a caso Kant ha fatto seguire alla Critica della ragion pura, la Critica della ragion pratica e poi la Critica del giudizio nella speranza di scoprire ciò che lui ha sempre definito l’autointeresse della ragione). È indubbio che lo scientismo della modernità, basato tutto su un concetto di verità come verifica empirica di ipotesi o enunciati, scardina ogni fondamento del pensiero teologico, religioso-metafisico e il fondamento dell’idea stessa del sacro e del divino, ma questo scientismo non si accorge che con la sua neutralità o oggettività poste su un piano puramente empiristico finisce con lo scardinare anche i propri stessi presupposti di conoscenza e verità. Dal positivismo classico al neopositivismo, non solo gli enunciati scientifici vengono contrapposti agli enunciati metafisici, ma si reclama per i primi e solo per essi validità scientifica. In questa prospettiva, l’ambito dei valori, della morale e dell’etica è ambito soggettivistico, ambito di fede privata; non più ambito di scienza e di oggettività o ambito universale, ma ambito individualistico e ideologico. La voce di Ratzinger e il suo Gesù di Nazaret si collocano quindi in questo contesto di caduta del sacro e del divino di fronte all’infierire di quel nichilismo della scienza-tecnica, definita dallo stesso Heidegger l’espressione più alta dell’oblio e della perdita dell’essere. Una scienza-tecnica come dominio e scopo ultimo del mondo. Siamo passati dal voler dominare il mondo con l’ausilio della tecnica ad una tecnica che domina noi e il mondo. Il paradosso vuole che con la scienza-tecnica si pensava di liberare l’uomo dal dominio (della metafisica). Rimanendo all’interno dei nodi centrali del tema qui in discussione, si evince che Benedetto XVI contrappone Gesù di Nazaret all’aut-aut tra fede e ragione, ovverosia ad una separazione tra fede e ragione in cui la fede rappresenterebbe solo ancora un mito o la follia mentre la ragione sarebbe scienza e l’unica fonte di verità. Ci sarebbe molto da dire su questa equiparazione. (A dire il vero il termine follia si trova nella prima lettera ai Corinzi dello stesso Paolo, varrebbe quindi la pena discutere cosa dovremmo intendere con follia nel senso di Paolo prima di formulare l’equazione: sacro (ovverosia religione) = follia). Benedetto XVI contrappone ovviamente la fede allo scientismo dei fatti, all’idea cioè che la ragione scientifica sia il rappresentante unico della verità. Come per Giovanni Paolo II anche per Benedetto XVI, non si tratta di scegliere tra fede o ragione. La fede si potrebbe dire non entra in conflitto con la ragione perché non si pone in concorrenza (come metteva in evidenza già Sant’Agostino) con la ragione intesa come razionalismo (se vogliamo anche empirico). La fede per Ratzinger, come per Giovanni Paolo II, va oltre la razionalità empirica, perché trascende (in senso tommasiano) quest’ultima. La fede si pone, cioè, sì su un piano di indimostrabilità in senso scientifico-empirico, non per questo però essa è di per sé non verità. Vorrei sottolineare che tutto il discorso ermeneutico che va da Dilthey, passando attraverso Heidegger, a Gadamer è un discorso in cui si rivendica a ragione la necessità delle scienze spirituali, accanto alla necessità delle scienze naturali fisico-matematiche. Il termine scienze spirituali o ermeneutiche non sta ovviamente per scienze teologiche o religiose, ma per scienze della cultura, storiche, umane e sociali. Nondimeno: nelle scienze spirituali, storiche, culturali o come dirsi voglia si rivendica, a ragione, il dato di fatto che accanto alle verità metodiche, ci sono ampi spazi per le verità extrametodiche e in questi ambiti extrametodici non ci sono dubbi che non si potrà e non si dovrà fare a meno di istanze normative, morali, etiche nonché religiose. Religiose in un doppio senso: nel senso storico (di ricostruzione e comparazione di religioni e fedi) e nel senso scientifico-teologico e filosofico (ricerca sulla trascendenza o sul fondamento ultimo). Da prospettiva ermeneutica si rivendica (penso per esempio a Jürgen Habermas e Theodor Adorno nonché a Max Horkheimer e soprattutto all’amico Karl-Otto Apel, a cui è dedicato questo Centro filosofico) − si rivendica, dicevo − che senza un’istanza normativa non solo non c’è scienza in generale, ma nemmeno c’è scienza empirica, la così detta scienza dei dati di fatto, in particolare. Ma rimaniamo intanto sul concetto di Fede. La fede non è ovviamente un prodotto o risultato di ricerca scientifica, piuttosto può precedere quest’ultima. Nella tradizione cristiana, la fede è un dono che ci avvicina a verità alle quali non si accede certamente con metodi di dimostrazione empirica. In altri termini, la verità è trascendenza e in quanto tale si estende al di là del mondo sensibile o fenomenico. Si tratta di verità che, usando le terminologia del teorico dell’ermeneutica filosofica Hans-Georg Gadamer, dovremmo collocare su un piano extra-metodico, anche se Gadamer nella sua ermeneutica non fa riferimento ad un piano di verità di trascendenza religiosa, ma colloca la sua ricerca su un piano storico. Ma anche Benedetto XVI cerca il Gesù storico, il Gesù in carne ed ossa e non un Gesù come una nuova religione. Dicevo che la fede non é questione metodica e che non c’è quindi metodo (scientifico) che porti ad essa. Non per questo essa non c’è o è di per sé esterna alla verità. Qui varrebbe la pena discutere che cosa ovviamente intendiamo con verità. Se cioè tutto ciò che non è dimostrabile è privo di senso, quindi insensato, come ha supposto penso in modo completamente errato Ludwig Wittgenstein, oppure se anche ciò che non si può dimostrare è pensabile come verità. Due esempi a favore di questa che può sembrare una mia ipotesi provocante o azzardata. Dire, per esempio, che l’essere umano è di natura libero, non è nessuna proposizione empirica dimostrabile, non per questo questa proposizione è priva di senso o non è vera. Un secondo esempio: dire che tutti gli esseri umani sono uguali, non è una proposizione empirica dimostrabile, non per questo essa è insensata. Dico a Wittgenstein che il contrario è vero: che queste due proposizioni non sono meno vere dell’affermazione: questo tavolo che ho qui davanti è un tavolo. Passo così all’interrogativo: Vivere con o senza Dio? Ovviamente qui si apre allo scenario a cui facevo riferimento all’inizio: possiamo davvero vivere senza Dio? In altri termini: è meglio vivere da nichilisti? Si tratta certo di vedere dove intendiamo collocare il senso della vita umana se di senso vogliamo ancora parlare. Da veri nichilisti la domanda di senso è superflua. Abbreviando il discorso, abbiamo due prospettive in concorrenza, l’una laica e l’altra religiosa: da un lato si apre a noi lo scenario della relatività, della contingenza (direbbe il neopragmatista Rorty), della finitudine o temporalità dell’essere (direbbe Heidegger), dall’altro si apre a noi lo scenario di voler collocare il senso della vita umana nella necessità, sentita per esempio dalla Chiesa, dell’ineludibile ricorso ad un concetto di assoluto, fondante o di fondamento, della necessità quindi di non voler fare a meno del concetto di Dio come punto di riferimento della vita umana. In altri termini: abbiamo da un lato la relatività della finitudine storica dell’uomo e l’impossibilità di comprendere la nostra storia umana esternamente a questa stessa storia finita (la prospettiva nichilista), dall’altro il bisogno espresso dalla Chiesa e in questo caso dal Gesù di Nazaret di Ratzinger di collocare l’esistenza umana all’interno di un disegno divino, di un cosmo che è frutto della creazione di Dio e non del puro caso o di una evoluzione dovuta a se stessa indipendentemente da ogni intento finalistico. Indubbiamente, giungiamo qui al punto centrale del Gezù di Nazaret di Papa Benedetto XVI. Si tratta e non potrebbe essere diversamente di comprendere la verità non nel senso empiristico, ma come umanizzazione all’insegna dell’atto fondativo del cristianesimo: si tratta in ultima istanza per Ratzinger di riconoscere il senso dell’incarnazione di Dio. Di un Dio che si concede al sacro e si fa mondo, muore per risorgere e per dare senso alla storia dell’uomo sollevandolo dal suo status di contingenza e di storicità e sottraendolo al male. Il tempo che l’annuncio articola non si consuma più come fattività senza un fine e senza un senso. La finitudine o meglio la croce, la morte sono il punto di partenza che scandiscono il tempo futuro: la salvezza che lascia indietro il male e apre ad un futuro della storia dell’uomo, come futuro all’insegna del divino e quindi della salvezza. Non più lo scorrere senza significato del tempo; l’eschaton guida il tempo, il tempo dell’uomo e della storia, come tempo non senza un fine e senza uno scopo, ma come tempo che realizza quanto è stato annunciato. La morte è così vita, resurrezione. L’annuncio cristiano come redenzione è questo passaggio dal tempo dell’uomo al tempo di Dio, il passaggio dal tempo della storia come casualità all’amore come preparazione al mondo di Dio, al suo regno. Sono questi i punti forti, centrali dell’etica cristiana. L’etica di Cristo risiede in questa morte-redenzione, morte-vita: dalla morte la vita vera, autentica. Non c’è bisogno di rimarcare che si tratta di un’etica pensata per tutti e che non conosce frontiere. Il messaggio non conosce razze, in esso siamo tutti figli in Dio, tutti fratelli. La missione è l’amore e non l’odio universale, la fratellanza e non la guerra, la giustizia e non la violenza. Heidegger diceva che l’uomo doveva essere il pastore dell’essere, doveva vivere possibilmente nelle vicinanze dell’essere, doveva porsi in ascolto dell’essere. Benedetto XVI, diversamente da Heidegger, dice che c’è un solo pastore e che questo pastore non è l’uomo, ma il logos che in Gesù si è fatto uomo. Questo logos è il pastore di tutti gli uomini, perché tutti sono stati creati mediante quell’unico Verbo che si è fatto uomo per offrire la sua vita. Giungo alle mie domande conclusive: Gesù della storia o Gesù della fede? O meglio: possiamo vivere senza Dio o solo di nichilismo? Dio c’è o (come afferma Scalfari nella sua Repubblica del 13.5.2007) è un’invenzione dell’uomo? Se Dio è amore come spiegarsi – così il parere di molti − tanto male sulla terra? Dio c’è, ma è assente allora? All’eclissi della ragione (teoretizzata da Max Horkheimer e Theodor Adorno) è seguita l’eclissi di Dio? Racchiudo la mia personale e modesta risposta alle domande finali in questa piccola e a questo punto definitiva conclusione: Dopo l’immane tragedia di Auschwitz la cui barbarie non ha possibilità di essere colta con la ragione umana, barbarie davanti alla quale la ragione smarrita, impotente è sprofondata nel baratro del nulla, Theodor Adorno ha scritto che fare poesia o cultura è solo ancora spazzatura. La tragedia disumana di Auschwitz come fu possibile? Auschwitz ha indubbiamente travolto e più precisamente stravolto il concetto stesso di ragione, il concetto stesso di fede non solo in Dio, ma anche di fede nella ragione umana. Dov’era Dio ad Auschwitz? Dov’era Dio quando dai camini dei forni crematori le ceneri di milioni di innocenti imbiancavano all’esterno i campi? Dov’era Dio a Theresienstadt, luogo in cui avveniva la raccolta dei bambini prima del loro sterminio? Il filosofo e teologo Hans Jonas ha scritto uno stupendo saggio dal titolo Il concetto di Dio dopo Auschwitz in cui si trova un passo che lui ha ripreso dal libro La notte di Elie Wiesel e che io a mia volta ho ripreso da Jonas nelle mie Lettere a Kant4. In questo passo si racconta l’impiccagione di tre prigionieri tra cui un bambino, “l’angelo dagli occhi tristi”, impiccagione che avveniva realmente in uno dei tanti campi di sterminio. Il passo è questo: I tre condannati salirono insieme sulle loro seggiole. I tre colli vennero introdotti contemporaneamente nei nodi scorsoi. Viva la libertà! – gridarono i due adulti. Il piccolo, lui, taceva. - Dov’è il Buon Dio? Dov’è? – domandò qualcuno dietro di me. ………………. Poi cominciò la sfilata. I due adulti non vivevano più…Ma la terza corda non era immobile: anche se lievemente il bambino viveva ancora… Più di una mezz’ora restò così, a lottare fra la vita e la morte, agonizzando sotto i nostri occhi…Era ancora vivo quando gli passai davanti. La lingua era ancora rossa, gli occhi non ancora spenti. Dietro di me udii il solito uomo domandare: Dov’è dunque Dio? E io sentivo in me una voce che gli rispondeva: Dov’è? Eccolo: è appeso lì, a quella forca…
Prof. Dr. Phil. M.A. Michele Borrelli
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Michele Borrelli, La fine del sacro e l'avvento del nichilismo?,
"Topologik.net", Collana di Studi Internazionali di Scienze Filosofiche
e Pedagogiche, Rivista online, ISSN
1828-5929, Sezione "Studi Filosofici", 18.05.2007, pp.1-6. |