TOPOLOGIK.net   ISSN 1828-5929      2008, nº 3


L’amore sacro e l’amore profano

Michele Borrelli

Contributo presentato in occasione del II Festival Internazionale della Filosofia in Sila


Col titolo ho voluto portare subito alla luce un conflitto di fondo che si presenta immediatamente non solo in ambito filosofico, ma che racchiude, senza orma di dubbio, lo stesso pensiero Occidentale e, quindi, ogni tema e soprattutto il tema qui in discussione. Mi riferisco, cioè, al conflitto generato dal fatto che il pensiero Occidentale è un pensiero fondamentalmente dualistico. Per semplificare al massimo il problema, si potrebbe dire che parliamo di amore nel senso di amore sacro o nel senso di amore profano, oppure nel senso di uno dei tanti tentativi che sono stati pensati per unificare, armonizzare o superare la scissione tra amore sacro e amore profano che si è prodotta in seno al pensiero Occidentale, già dal suo inizio. Per dimostrare quanto qui asserito, mi avvalgo di alcuni dei significati filosofici tra i tanti riservati dal pensiero Occidentale alla nozione: amore.

Per il gioco semantico che, intorno al concetto di amore, cercherò di avanzare, distinguo, quindi, tra amor sacro e amor profano; tra amore, cioè, in senso fisico (o empirico, amore come desiderio, godimento, piacere, passione) e amore in senso metafisico (trascendental-trascendente); inoltre, in aggiunta a ciò, si potrebbe ulteriormente differenziare tra amore umano e amore divino o, detto diversamente: tra amore sessuale e amore come armonia cosmica o forza che muove le cose e le mantiene assieme, come pensava, per esempio, Parmenide. Potremmo, però, servirci subito anche della differenza-unità che Platone sviluppa nel Fedro: differenza-unità tra bellezza sensibile e amor di sapienza o filosofia; differenza in cui metafisico e fisico si fondono. In questo senso, siamo già all’interno di uno dei tanti tentativi di superamento dello sdoppiamento o del dualismo a cui accennavo or ora. Possiamo, però, passare dalla differenza aristotelica, tutta situata ancora nella contingenza storica ed intesa, quindi, in senso completamente a-metafisico, che riguarda l’amore inteso come sesso e l’amore percepito come amicizia, all’idea dello stesso Aristotele del concetto di primo motore come ordinamento finalistico a cui tutte le cose sarebbero orientate, idea che riprenderebbe, in certo qual modo, il dualismo, in un senso vicino alla prospettiva di Platone, vale a dire: la tesi di un amore come armonia e superamento delle antitesi. In rinvio nuovamente a Platone, si tratterebbe di un amore come via che conduce al bene e all’Uno e, quindi, al raggiungimento del bene più alto.

Lasciamo, però, da parte i tentativi e le soluzioni che il pensiero greco ha riservato al termine amore e passiamo all’amore nel significato intrinseco alla tradizione cristiana.

Il cristianesimo assegna al termine amore un senso, per certi versi, completamente nuovo in quanto estende l’amore, in modo specifico e sostanziale, al prossimo, comprendendo l’amore, non da ultimo, come resistenza al male (Matteo, 5, 44). È noto che per il cristiano Dio è amore, tant’è vero che la vita cristiana si pone il compito o addirittura l’obbligo di dispiegarsi non solo come superamento del male e, quindi, come amore, ma si propone anche di vivere nell’amore che abbraccia tutti noi fratelli e il Padre (o Dio). La figura di Cristo si presenta, non a caso, come kenosis: crocifissione o, meglio, come un atto d’amore, un concedersi da parte di Dio al dolore e alla morte; in questo senso l’incarnazione può essere interpretata come un atto d’amore per liberare l’uomo dalla morte e dal dolore. È l’atto d’amore di un Dio (o di Dio) che si concede al sacro e si fa mondo, che muore per risorgere e per dare senso alla storia dell’uomo sollevandolo dal suo status di contingenza e di storicità, sottraendolo così al male. Il tempo che l’annuncio dell’amore divino articola, non si consuma più come fattività senza un fine e senza un senso. La finitudine, o meglio la croce, la morte sono il punto di partenza del darsi dell’amore divino che scandisce il tempo futuro: l’amore che lascia indietro il male e apre ad un futuro della storia dell’uomo, come futuro all’insegna della salvezza e appunto dell’amore. Da questa prospettiva divina dell’amore, il tempo non si consuma in uno scorrere senza significato; l’eschaton guida piuttosto il tempo, il tempo dell’uomo e della storia, come tempo non senza un fine e senza uno scopo, ma come tempo dell’amore che realizza l’annuncio divino. In ciò e solo in ciò: la morte è vita, è resurrezione. L’annuncio dell’amore cristiano, sotto forma di redenzione, consiste in questo passaggio, ovverosia: si tratta del passaggio dal tempo della storia, come casualità, all’amore come preparazione al mondo di Dio e al suo regno.

Se cerchiamo, con Sant’Agostino, di contestualizzare l’idea di fondo di questo messaggio cristiano, giungiamo a tre significati: fede, speranza, amore. Tra i tre significati, l’ultimo, l’amore, è ovviamente l’istanza in cui tutto confluisce, o meglio: in cui tutto si avvera, per logica interna al messaggio divino. Con Sant’Agostino (354-430), infatti, lo stesso Spirito Santo si identifica con l’Amore. Se lo Spirito Santo è amore, Dio è l’essere, Gesù (il figlio) la rivelazione, il logos, ovverosia: la verità. Amor divino (o meglio amore di Dio) e amore del prossimo formano allora quell’unità attraverso cui tutti gli uomini sono e saranno fratelli in Cristo e, quindi, figli di Dio nel regno di Dio.

Il messaggio cristiano scioglie indubbiamente l’aporia, intrinseca al dualismo del pensiero Occidentale, riunificando, su un piano di stretta trascendenza, quanto dal pensiero Occidentale tenuto diviso e separato o ritenuto antitetico e, quindi, inconciliabile.

Se proseguiamo in questo gioco linguistico, notiamo un susseguirsi infinito di semantiche nuove e nuovi tentativi di riconciliazioni.

A San Tommaso (1225-1274) dobbiamo, per esempio, la distinzione tra amore naturale e amore intellettuale. Il primo (l’amore naturale) è un’inclinazione posta da Dio negli esseri creati, il secondo (l’amore intellettuale) è carità e virtù e si esplicita come amor benevolentiae o amicizia dell’uomo verso Dio. L’amor benevolentiae perfeziona l’amore naturale ed è, quindi, superiore a quest’ultimo. Come si può notare, anche in tal caso, si cerca una sintesi o, meglio, si cerca l’uscita dall’aporia creata dalla distinzione tra naturale e intellettuale. Per questa conciliazione, San Tommaso si avvale di un concetto di amore come reciprocità dei distinti o di amore come comunione che tutto risolve e tutto armonizza e che scioglie, quindi, le antitesi generate.

Anche l’illuminista Kant non farà a meno di distinzioni, allorché separerà l’amore sensibile dall’amore pratico o morale. Ma con Kant, non siamo ovviamente su un piano di conciliazione e di armonia tra l’amore umano e l’amore divino (tra l’amore sacro e l’amor profano), in quanto per Kant (diversamente dall’amore che è possibile nei rapporti intra-umani) non c’è possibilità di amare Dio come inclinazione empirica. Per Kant Dio non è oggetto dei sensi. Kantianamente si tratta, allora e solamente, di orientarsi alla massima: ama Dio sopra ogni cosa e il prossimo tuo come te stesso, intesa come imperativo morale, ma non si tratta certo di unificare amore umano e amore divino, sciogliendo il contrasto dato, di principio, tra i due tipi di amore.

Se Kant riporta il significato dell’amore in ambito inter-umano, storico-contingentistico o empirico, da un lato, e di orientamento morale, come processo in infinitum, dall’altro, evitando armonizzazioni o unitarietà tra umano e divino, pensatori come Hegel, Fichte, Schelling creeranno i presupposti per una nuova riconciliazione tra questi significati che si riconfermeranno, però, sempre e comunque distinti. Se finito ed infinito, empirico e razionale, contingenza e trascendenza, fenomeno e noumeno si identificano e si ricompongono in una unità indivisibile (e questo avviene nelle filosofie di Hegel, Fichte e Schelling), anche l’amore (come rinuncia di se stesso per identificarsi con l’altro) avvera il suo carattere infinito, e non individualistico storico-finito o contingente, ristabilendo un’armonia che non potrebbe esistere tra due distinti, ma solo nell’unificabilità dei distinti. In questa prospettiva, l’amore non è riducibile solo all’atto sessuale, in quanto ne uscirebbe necessariamente diminuito, impoverito o indebolito. L’amore che si prospetta nelle visioni di Hegel, Fichte, Schelling, dal momento che costituisce una unità-identità-infinita, oltrepassa, invece, i limiti del finito per riproporsi in un’armonia che è sintesi di distinti: amore come conciliazione e superamento del finito, appunto: amore come dischiudimento e raggiungimento dell’infinito.

Su un piano altrettanto analogico ma non per questo identico, può essere valutata la distinzione tra amore sessuale e amore puro, formulata da Schopenhauer. Il primo (l’amore sessuale) è inteso da Schopenhauer come manifestazione, per così dire, fenomenica o empirica della produzione e riproduzione del mondo; il secondo (l’amore puro) come compassione e, più precisamente, compassione per l’altrui dolore, in ultima analisi: come compassione per il dolore del mondo. Sembra essere tornati alla kenosis: al dolore che spinge Dio a concedersi, nella figura di Gesù, al sacro; farsi uomo: morire e resuscitare come donazione d’amore. Ovviamente, la prospettiva schopenhaueriana del dolore non si colloca sul piano di un concedersi dell’amore divino al sacro. Il dolore del mondo è dovuto, piuttosto, alla lotta della volontà di vita in se stessa divisa e che combatte contro se stessa all’interno di ciò che potremmo definire unità cosmica o con Hartmann: la forza infinita che regge il mondo. In Schopenhauer non si dice nulla, infatti, su un principio amore, come superamento del male o ragione intrinseca al cosmo, nel senso del darsi o concedersi dell’amore di Dio; di un amore come principio a cui tutto si ispira e in cui tutto fluisce e culmina. L’amore di Schopenhauer e di Hartmann regge il cosmo; è quindi non principio divino che regola e guida le cose e infonde in esse l’amore quale espressione di quell’amore unificante tutto che è Dio o del creato inteso come donazione divina d’amore.

Similmente a Schopenhauer ed Hartmann, l’amore di Nietzsche si colloca su un piano cosmologico e non teologico. L’amor fati è “non voler nulla di diverso da quello che è”, “amare ciò che è necessario”. Il compito dell’uomo non è un tentativo di unirsi al divino o sottomettersi addirittura ad esso, piuttosto il tentativo di “sdivinizzare del tutto la natura”, naturalizzare con la natura intesa nella sua forma pura, ritrovata e redenta, sottratta, quindi, a ingerenze d’ordine metafisico. Nella Gaia scienza, Nietzsche può concludere: “abbandonare ogni fede, ogni desiderio di certezza e abituarsi a reggersi sulle corde leggere di tutte le possibilità” seguendo la massima divieni ciò che sei. L’amore nietzscheano è, non a caso, volontà di potenza, volontà che s’impone e non ascolta precetti, prescrizioni, princîpi morali o etici. All’amore come pura esperienza di sublimazione (è il caso dell’amore sacro), corrisponde in Nietzsche l’amore come esperienza, se vogliamo, orgiastica.

Non vi sono dubbi che, da ottica profana, il carattere di universalità dell’amore deve essere non solo radicalmente indebolito, ma anche situato su un piano di contingenza storica, sottratto, quindi, al piano sovrastorico o della trascendenza (divina). E in questo senso, come in Feuerbach, l’universalità sta per l’umanità, in Marx non c’è traccia alcuna dell’unità cosmica o dell’unità tra finito e infinito (teorizzata, per esempio, da idealisti o romantici). Il regno della libertà, postulato da Marx, non ha nulla da spartire col regno dell’amore annunciato nel messaggio cristiano. Il regno della libertà di Marx è regno dell’al-di-qua e non regno dell’al-di-là.

Amore sacro e amore profano ritornano a congiungersi o a separarsi, a vivere insieme o in dimensioni distinte ed antitetiche, se si segue l’una o l’altra corrente di pensiero. Valga, come esempio ulteriore, la diversità delle posizioni di Bergson e Sartre. In Bergson si parla di unità tra uomo e Dio, ovverosia di unità tra chi ama e chi è amato, partendo dal presupposto che il creato è opera dell’amore di Dio ed è pervaso da amore divino. In Sartre l’amore è la fusione fra due infiniti e due infiniti non possono che escludersi reciprocamente. Al misticismo di Bergson si contrappone, allora, in Sartre la caduta dei presupposti che conferiscono al termine amore unità e assolutezza e lo connotano come fonte di salvezza. Se l’amore profano è esterno ai caratteri d’infinità e assolutezza, di universalità e divinità, di sacralità e totalità e si situa tutto in un contesto tra esseri finiti, storici, contingenti ed è, quindi, suscettibile delle variazioni e interpretazioni più differenti, l’amore sacro, invece, è tutto situato su un’idea di infinità e assolutezza che sovrasta il mondo empirico-fenomenico per tradursi o in legge cosmica o in forza intrinseca e ineluttabile del destino dell’essere, indipendentemente, quindi, dalla volontà e dall’azione umane, oppure in legge divina e cioè in quell’amore di cui è pervaso tutto il creato e a cui tendono tutte le cose. In definitiva: l’amore come atto d’iniziazione del creato e atto finale in cui il regno di Dio dispiega se stesso. Proprio a quest’ultimo tipo di amore pensava probabilmente Bernardo di Clairvaux nei suoi discorsi con Thierry, quando divideva l’amore in quattro gradi: “l’uomo che ama se stesso per se stesso”; “l’uomo che ama Dio per se stesso”; “l’uomo che ama Dio per Dio stesso”; “l’uomo che non ama più se stesso se non per Dio”, e concludeva: “la misura” per amare Dio “è amarlo senza misura”.

In conclusione

Se l’amore profano non può fare a meno del fisico, l’amore sacro non può fare a meno del metafisico. Se il primo è sempre e comunque rapporto empirico inter-umano, il secondo è un rapporto trascendentale-trascendente Dio-uomo, dove l’uomo come empiricità, fenomenicità, storicità finisce, in certi casi, per auto-negarsi o auto-annullarsi completamente. Amore, a quel punto, è solo amore spirituale. Detto diversamente: il vero amore non è più l’amore fisico, corporeo e i rapporti inter-umani ad esso legati, ma l’amore spirituale, sacrale, divinizzato. Da questa prospettiva, diventa addirittura necessario negare l’amore come corporeità, in quanto la corporeità potrebbe costituire un ostacolo o un pericolo all’amore vero che è spirito, quell’amore unico, vero, illimitato che, in ultima analisi, è Dio.

Il pensiero Occidentale oscilla, dicevo all’inizio, tra questi due presupposti, oscilla, cioè, tra questi due tipi di comprensione: il concetto di amore fisico (o amor profano) e il concetto di amore metafisico (o amore sacro). Si muove, cioè, tra un concetto di amore che è anche sesso (o per alcuni solo sesso o puro sesso) e un concetto divino di amore che può e deve essere pensato, in tanti casi, come amore senza sesso. L’amore, in questo senso, è un rimettersi spiritualmente, interamente a Dio, mettendo, quindi, da parte la corporeità.

Ovviamente le domande non vengono meno con o senza le infinite soluzioni che il pensiero Occidentale ha riservato alla nozione amore, soluzioni alle quali si è solo potuto accennare. Peraltro sono domande già da sempre poste e sempre di nuovo riproposte e che rimetto nuovamente in gioco ai fini della discussione:

  • L’uomo è anzitutto essere che pensa o essere che ama?

  • L’uomo prima conosce e poi ama oppure: è amando che conosce?

In altri termini:

  • L’amore è un prodotto della conoscenza o è la fonte della conoscenza?

Qualche altro interrogativo:

  • L’amore può essere solo spirituale?

Viceversa:

  • Un amore solo fisico è ancora amore?

La cosa più interessante è provare ad unificare i due ambiti, il che, come abbiamo messo in evidenza, è avvenuto da sempre nella storia umana e continuerà sicuramente a ripresentarsi anche in futuro. Unificare i due ambiti, significa dare spazio alla fantasia e alle infinite giustificazioni: amore come sesso, amore come pura sublimazione o sacro. Amore che non vuole o non crede di essere solo sesso. Molti si riconosceranno in questa proposizione conclusiva, a cui lego la speranza di uno scambio critico di prospettive. La proposizione è questa: quando si ama non c’è solo il fisico, il corpo, l’attrazione erotica, il sesso, ecc., come dire: quando si ama c’è dell’altro. Ebbene ditelo voi, dite voi cos’è quest’altro.


 

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2008, n°3