On. GIUSEPPE PIERINO

Contributo ad un

MANIFESTO

per una Calabria diversa


Se questa storia non è niente, dicono i narratori in Africa, appartiene a chi

l’ha raccontata; se è qualcosa, appartiene a tutti noi”. Ernst Bloch, Tracce.

La Calabria affonda, ma è come un naufragio annunciato. Potrebbe dirsi: così era scritto, da quando con varie complicità DS e Margherita trasformarono una straordinaria sperimentazione partecipativa in un’operazione elettorale truffaldina. Allora svanì a Lametia l’occasione di voltare pagina o almeno di cercare strade nuove, e si consumò un tradimento che ha avuto gravi conseguenze e potrebbe condannarci a un declino storico, segnarci per sempre.

La notte che seguì l’assemblea dei grandi elettori fui svegliato dalla telefonata di un amico vecchio signore della DC che allegramente mi disse: “sono molto contento. Tu lo sai, io starò col centro destra chiunque lo guiderà. Ma volevo complimentarmi con qualcuno per avere scelto voi stessi chi vi porterà alla rovina”, alludendo al candidato presidente e alla sinistra post-comunista di cui evidentemente conservava una immagine arcaica.

Ma quel presagio coglieva solo parzialmente il pericolo poiché sulle orme dei precedenti governi, non la sinistra che se l’era cercato ma l’intera Calabria sarebbe stata trascinata nella più grave crisi del dopoguerra. Crisi morale, politica, di prospettiva che ha distrutto speranze appena nate, fiaccato ogni slancio innovatore, disperso il senso di un comune destino.

L’impresa in verità appariva ardua sin dall’inizio; l’eredità era certamente pesante e l’insuccesso nell’ordine delle cose possibili. Ma il rinnovamento promesso non è stato neanche tentato. Si è subito aperto un aspro scontro di potere ed accantonato il programma, è invalsa una pratica di governo stantia e senza qualità che ha fatto regredire la vita sociale e civile, sprecato energie ed opportunità, mortificato competenze e professionalità discreditando la Calabria a partire dalle sue principali istituzioni. Chiave di volta le nomine nella sanità, considerate più importanti dello stesso partito -la Margherita- e della sua unità, e la conseguente formazione di un movimento personale con base clientelare che ha destabilizzato ed inquinato gravemente l’attività politica.

Chi e perché ha voluto quelle nomine -inquisiti compresi- a un prezzo tanto alto? A saperlo tutto risulterebbe più chiaro. In ogni caso dev’esserci stata una ragione, pur se sconosciuta, adeguata alla posta in gioco.

Mai tuttavia divergenze e lacerazioni hanno riguardato l’indirizzo politico, gli obiettivi di fondo, i metodi di governo. Il conflitto si è incentrato sempre sul nudo potere e l’ultima verifica si è risolta nello scontro selvaggio su chi materialmente dovesse disporre dei fondi comunitari più che sui fini e la qualità dell’intervento, sinora volto a foraggiare clientele e malaffare. E nel disinteresse per la crescita economica (lavoro ed occupazione giovanile, squilibri sociali, ricerca, valorizzazione storico-ambientale, politica euromediterranea, ecc.) è proseguita la devastazione del territorio, del paesaggio, di beni essenziali come l’acqua, il mare, le città, i servizi: ossia la complessiva qualità della vita. Del resto non si è menato vanto per esser rimasta l’ultima regione italiana inchiodata all’obiettivo uno? Il timore di una sconfitta comune li ha poi resi più accorti, ma la bonaccia non ha impedito il violento riesplodere di nuove turbolenze attorno al caso Lo Moro o al comitato ordinatore del Partito Democratico. Nulla è in realtà mutato. Tare e vizi antichi hanno così incrociato un vuoto politico, etico, ideale dilatando il degrado sino a minare le basi stesse di una possibile ripresa. Tutto è irrimediabilmente compromesso e siamo immersi in un marasma inestricabile col governo screditato, la legislatura ingessata, la democrazia raggirata e sospesa mentre lo stato dei partiti, l’inaffidabilità ed i condizionamenti di una parte rilevante del personale politico; la pervasività di mafie, lobbies e poteri impropri avvertono che stiamo entrando, indifesi, in una spirale distruttiva e il peggio deve ancora venire.

 

Verso la barbarie. Il potere alla mafia.

In gioco è la nostra stessa convivenza ed il destino delle generazioni future.

Per rendersi conto della minaccia incombente basta integrare le analisi del prefetto De Sena circa la permeabilità della pubblica amministrazione agli interessi delle cosche nel punto in cui egli, dato il ruolo, è parso comprensibilmente reticente: ossia lo stretto rapporto che intercorre tra la burocrazia e il potere politico, emerso implicitamente dalla relazione del Procuratore Grasso alla Commissione parlamentare antimafia. L’escalation delle intimidazioni -oltre 12.000 in un anno- assieme alla ampiezza dell’attacco rivela la notevole resistenza di amministratori onesti e coraggiosi. Ma perdurando le attuali condizioni la partita può considerarsi persa lo stesso. Accanto agli amministratori presi di mira è venuto infatti crescendo il numero di incriminati, collusi, indagati eccellenti. Il legame tra mafia, politica e affari è ad un cambio di fase e la verità sul delitto Fortugno avrebbe potuto illuminarne le azioni di contrasto, come pure le ambiguità, i lati oscuri e i nuovi approdi. Ciò che invece ne ha reso più faticose ed incerte le indagini sino alla recente, sconcertante invettiva del Procuratore Grasso. Ma il passaggio ad un più articolato e penetrante sistema di relazioni rispondente alla dimensione sopranazionale raggiunta dalla ndrangheta e ai suoi molteplici interessi economici e finanziari, delineerebbe in ogni caso uno scenario catastrofico le cui avvisaglie fanno capolino tra le vicende giudiziarie in corso. Forte perciò dev’essere l’allarme.

In un mercato criminale aperto e praticamente senza limiti la ndrangheta si è trasformata e trova oggi i suoi punti di forza laddove prima erano le sue pastoie: la struttura familistica refrattaria al pentitismo, la sua articolazione, la sua flessibilità. Di per sé l’espansione del potere criminale comporta legami, rapporti, cointeressenze ben oltre i condizionamenti e le infiltrazioni d’una volta; un mutamento di qualità ed un più corrosivo impatto con la politica, a partire dal voto non più completamente libero. Non è un caso che il disegno di legge elaborato dal giudice Romano De Grazia e dal Centro Lazzati, teso a proibire l’intervento diretto della mafia nelle competizioni elettorali, non abbia ancora un sicuro percorso parlamentare né il sostegno convinto delle forze politiche sebbene realizzerebbe uno sviluppo coerente della legislazione antimafia. E’ infatti una disgraziata bizzarria che un pregiudicato sottoposto a misure di sorveglianza quale appartenente alla mafia e privato del diritto di voto possa far campagna elettorale come un cittadino nella pienezza dei suoi diritti politici e favorire i propri candidati intimidendo gli elettori.

Ha scritto Nicola Gratteri che “la ndrangheta non delega più come un tempo ma partecipa, corrompe, si infiltra e decide. Non ha preferenze, è bipartisan, ma non sta mai all’opposizione”. E’ divenuta cioè un’istituzione parallela che all’occorrenza può sovrapporsi a quelle legittime e ha forse in sé un nucleo di regolazione sinora sconosciuto -comitato d’affari o cupola- che rende cruciale la partita che si è aperta nella magistratura calabrese e attorno alla sua parte più integerrima attenta e libera sottoposta all’attacco di un fronte politico trasversale.

Benché in questi anni la lotta alla criminalità organizzata abbia conseguito innegabili successi, vaste aree del Mezzogiorno, e la Calabria in primis, continuano a subire un’oppressione irriducibile. Nessuna regione è malmessa e disperata come la nostra. Non la Campania devastata dalla camorra e sommersa dai rifiuti, né la Sicilia di Totò Cuffaro: contraddizioni, sensibilità e resistenze segnalano ovunque qualche diversità, la Calabria degrada invece inesorabilmente e cede sul fronte essenziale della legalità.

Colpe gravi e imperdonabili ricadono sul potere politico e sulle classi dirigenti. Parafrasando il verso di un poeta-lavoratore cosentino verrebbe da dire che la sinistra, questa sinistra calabrese, “non sa più scrivere”. La sua omologazione e il suo fallimento sono al tempo stesso conseguenza e causa di un guasto profondo pressoché irrimediabile, che ha diverse responsabilità e a cui è connaturato il ceto politico, cioè l’insieme di persone normali, perbene, a volte impegnate e di cialtroni, saltimbanchi e avventurieri che la crisi politica è venuta via via assemblando. Purtroppo la moneta cattiva scaccia la buona e sono così riemersi quei vizi che il meridionalismo democratico ha sempre stigmatizzato e combattuto e che ora devastano la società.

 

Morto il meridionalismo, sulla scena una folla di pagliette, trasformisti e avventurieri.

Agli albori del secolo scorso Francesco Saverio Nitti era convinto che “la Calabria [fosse] potenzialmente una delle più ricche terre d’Italia” e sarebbe divenuta “prima o poi, per forza di cose, un paese di immensa ricchezza industriale ed agraria”. Ragion per cui sferzava il ceto politico meridionale “assai misero e privo di idee, cui nulla più giova dello stato presente di anarchia morale e di disordine. I deputati del Mezzogiorno -fatte alcune stimabilissime e veramente nobili eccezioni- sono, scriveva, i bassifondi di tutte le maggioranze, disposti nella più gran parte per una piccola concessione attuale a rinunciare ad ogni avvenire. E’ fra essi che si reclutano i difensori di qualunque violazione dello statuto; è fra essi che pare abilità e intelligenza il passare per tutti i partiti e vi è chi, tra i più fortunati, ha avuto tutte le gradazioni dell’arcobaleno eppure non è ragione di disprezzo ma piuttosto di successo e di invidia”.

Non è stato in verità così nell’immediato dopoguerra quando nel crogiuolo di forti idealità e passione civile, proprio attraverso i partiti la Calabria espresse una classe politica avanzata e personalità eminenti: Pietro e Giacomo Mancini, Mortati, Lucifero, Cassiani, Molè, Casalinuovo, Alicata e, dai tempi forse di Cassiodoro , uno statista del livello di Fausto Gullo artefice, con pochi altri, dello Stato nuovo. Ma nella regressione cominciata con la crisi della prima repubblica quel giudizio severo è tornato straordinariamente attuale e pertinente. Il trasformismo è infatti dilagato e, dopo la macchinazione che nell’autunno del ‘98 ha portato alla formazione del governo D’Alema, non ha più riguardato singoli notabili bensì partiti interi o pezzi di essi a partire dal CCD e dall’UDEUR, e l’intervento di poteri forti e servizi deviati. Sono così proliferati gli eremiti di Lampedusa, come chiama Camilleri quelli che tengono i piedi in diverse staffe, corrompendo ed inquinando gravemente istituzioni e confronto politico. Alterando la vita democratica questo nomadismo ha poi alimentato un vasto mercato elettorale funzionale alla ndrangheta, un fenomeno inquietante che fa tutt’uno con la questione morale. Come in ogni circolo vizioso più il degrado s’allarga, più difficile è uscirne: la legislatura si trascina, il malgoverno si stabilizza, le differenze si dileguano ed un vero ricambio risulta impraticabile.

E’ il caso di chiedersi se il ceto politico resti ancora quel tappo causticamente definito da Piero Bevilacqua e se, e attraverso quali iniziative, possa davvero farsi saltare. Esso non ha alcuna cultura di governo, non sa ideare strategie, vive alla giornata e non sfugge ad una pessima rappresentazione di sé. Ma sa utilizzare il bisogno diffuso, gestire il consenso e, cosa più semplice e insieme più delicata e complessa d’un tempo, regolare i rapporti coi referenti romani cui porta il sostegno della provincia, e i poteri e gli interessi eventualmente concorrenti. La ventata sovversiva dei “democratici” recentemente esclusi dal vertice, più che una smentita confermerà la regola, essendo la conseguenza di uno screzio localmente irrisolto ma privo di effetti dirompenti e destinato ad un accomodamento deteriore.

Essendo estranea ad ogni etica pubblica la consorteria corrompe omologa respinge le diversità che non può introiettare. Alimenta la babele simbolica, concettuale e semantica che distorce la normale conoscenza delle cose, travisa la realtà, soggioga ed emargina le grandi masse. A dispetto delle apparenze sa radicarsi ed ha un ruolo attivo, ancorché nefasto, riscontrabile nell’uso distorto del potere e delle risorse pubbliche, nel decadimento dei costumi, nel degrado delle città. Il governo è stato in realtà piegato e involgarito a misura del ceto politico, la cui presa è quindi saldissima.

Malgrado talune novità, la fine del meridionalismo democratico ha comportato lacerazioni, rotture e guasti. Senza che il divario economico si riducesse, è cresciuto specularmente il malessere del Nord (e ora del Centro) da cui la Lega trae la sua legittimazione e la sua forza. Ormai la metastasi investe l’intero Paese.

Come lasciarsi dunque ingannare dal vittimismo, dalle lamentazioni risentite per la libera informazione che sfugge al suo controllo; e quale credito dare alle ripetute richieste di indulgenza e alle blandizie che si sprecano, ai propositi di ripartenza e a ogni altra promessa menzognera quando un’orgia d’ipocrisia avvolge e travisa ogni atto, ogni rapporto e si è fatta insopportabilmente irritante e stucchevole?

 

Nel peggio, l’anticipazione calabrese.

La Calabria è davvero a un difficile tornante della sua storia, ad un decisivo punto di svolta. Annacquando le differenze e uniformandosi, il centro sinistra ha prodotto danni irreversibili. Data la sostanziale continuità l’alternativa politica è sfumata, dissolta in un bluff. La perdita di fiducia ha indotto stati d’animo, tendenze e comportamenti regressivi che pregiudicano qualsiasi progetto esistenziale poiché lo spirito di sopravvivenza spinge ad adattarsi, a ripiegare e a sottomettersi. Così è cresciuta l’illegalità, l’insicurezza, il quotidiano ricorso ad espedienti d’ogni genere ed invece di nuovi diritti si è ristretto lo spazio di libertà delle persone.

Né stimoli al cambiamento sono venuti dal nuovo governo nazionale, alle prese con difficoltà di varia natura ed una maggioranza intrinsecamente debole ed esposta. Non a caso è divenuta subito centrale la riforma elettorale e si naviga a vista, all’insegna di un riformismo declamatorio, vuoto di contenuti e ingannevole.

Nessun cambiamento sostanziale appare oggi possibile, donde lo smarrimento e la perdita di fiducia. Il governo non scalda i cuori della gente e l’uppercut elettorale ha mostrato quale pericolosa frattura si sia aperta non a causa, ma per difetto di riformismo, di realismo, di risanamento in riferimento non ad astratti parametri o compatibilità ideologiche bensì alla vita concreta delle persone, delle categorie più disagiate e della nuove generazioni senza futuro.

Le diseguaglianze intergenerazionali vengono strumentalizzate spudoratamente. Una infame campagna ha preso di mira lavoratori anziani e pensionati accusati di scialacquare a spese di figli nipoti fratelli minori che magari tengono in casa perché senza lavoro o con salari di fame. Le lacrime di coccodrillo riempiono lo stagno degli scandali ed i governi, a sentirli, vorrebbero intanto rimediare tirando la coperta da quest’altra parte, non già recuperando l’enorme evasione contributiva delle aziende, ponendo l’assistenza a carico della fiscalità generale o accrescendo la produttività, ma piuttosto tagliando e barattando come s’è fatto sinora, incentivazioni immorali quando sottraggano insieme, spazi occupazionali ai giovani e risorse al monte pensioni del futuro. Ai riformisti nostrani segnalo una considerazione del grande economista americano Robert Soloow, nobel per i suoi studi sulle innovazioni usate da lor signori per risciacquarsi la bocca: “Coloro che ritengono prioritario non infliggere povertà al futuro, devono spiegare perché non attribuiscano anche priorità alla riduzione della povertà oggi… Se lo sviluppo umano è l’obiettivo fondamentale della crescita economica, lo sviluppo umano dovrebbe essere egualmente diviso fra le generazioni presenti e future”. L’età pensionabile è invece per taluni la linea del Piave, per le destre la Maginot da sfondare. Ma nel senso comune resta legata al prolungamento della vita e ai suoi costi a prescindere da responsabilità, contesti, prospettive economico-sociali, politiche gestionali con un evidente vantaggio degli avversari. In realtà si vuole solo una spartizione tra poveri e se è un lontano ricordo il saccheggio dei fondi Inps da parte dello stato; attuale è lo scippo sul TFR, si lascia che l’assistenza pubblica rimanga a carico della previdenza, mentre il mercato del lavoro è stato ridotto alla stregua del mercato del pesce, immigrati e lavoro al nero compresi e sinistra e sindacato sono finiti sotto schiaffo in barba all’accordo sull’abolizione dello scalone.

Insomma la politica accompagna, non guida e neppure condiziona il mercato e le forze che ne esprimono la natura e gli indirizzi, e ne decanta anzi il primato abdicando ai suoi doveri. Perciò più della globalizzazione l’introduzione dell’euro ha determinato un colossale trasferimento di ricchezza provocando vaste aree d’indigenza, nuove povertà ed ingiustizie senza che dal centrosinistra sia venuto un segno di correzione rispetto alla falcidia dei redditi più bassi o da lavoro e ai meccanismi che alimentano precarietà ed esclusione. Non si è impoverita l’Italia come pretende qualcuno, ma solo la sua parte più debole e indifesa acuendo le disparità economiche, sociali e territoriali. Pensioni, recupero salariale, cuneo fiscale per i lavoratori e coesione: tutto è sostanzialmente rimasto come prima.Come in altri campi, dai diritti civili alla stessa politica estera che nella vanità generale insegue una più dignitosa soggezione agli Stati Uniti, di cui il caso Abu Omar segna il limite. In tale contesto il ritiro dall’Iraq bilancia il coinvolgimento nella guerra afgana; l’ambiguo azzardo del Libano il ruolo mediorientale; mette in conto il potenziamento e la ridislocazione verso Est delle basi americane, suscitando proteste ritorsioni e spinte al riarmo quando l’Europa e l’Italia sono vitalmente interessate ad una politica di pace e di cooperazione anche con quelle potenze che irrompono sulla scena del mondo contestandone il carattere unipolare.

Il governo avrà pure due anime, ma purtroppo comanda una sola e la cifra è sempre la stessa. Non c’è un difetto di comunicazione; solo che la retorica non funziona come prima e nelle scelte più rilevanti come nei piccoli aggiustamenti non si scorge un tratto nuovo, un segno d’attenzione ai bisogni popolari e la credibilità è scemata. Il governo è largamente minoritario nel Paese e non reggerebbe a una spallata se l’opposizione fosse in grado di darla veramente. In questo stallo si cela il futuro politico dell’Italia, si misura la provvisorietà del quadro attuale e se ne scrutano gli indizi. D’Alema è in ansia per la tenuta del sistema, ma la crisi si approfondisce e degenera proprio esasperandone le cause che lui, disavvezzo all’autocritica, riscontra negli altri: sindacato sinistra radicale e movimenti. Non i costi spropositati della politica ma la sua degenerazione, l’uso spregiudicato del potere e l’affarismo hanno corroso le basi dello Stato e sono all’origine della disaffezione e del dissesto morale che spinge al collasso la democrazia. I costi altissimi della politica non attengono soltanto a indennità e privilegi, nè sono una escrescenza da estirpare con qualche intervento estetico. La malapolitica si autoalimenta ed ha prezzi crescenti in conseguenza di storture ineliminabili del sistema e della sua natura corrotta.

Il fallimento origina dal dissolvimento dei valori posti a fondamento della Repubblica, ma la corruzione nasce dai gangli del potere, ne rappresenta l’essenza ed ha pertanto un impatto sconvolgente. “Nelle città corrotte –scrive Machiavelli nei Discorsi- nasce la difficoltà o impossibilità a mantenervi una repubblica o a crearvela di nuovo. E quando pure la si avesse a creare o a mantenere, sarebbe necessario ridurla più verso lo stato regio che verso lo stato popolare.” Come dicono le cronache, piuttosto che affrontarle apertamente il governo ha coperto degenerazioni, trame e abusi che avvelenano la vita pubblica e ne compromettono l’immagine. L’allarme perciò non è infondato e senza un mutamento di rotta, Prodi potrebbe relazionarsi a questa crisi come Facta al fascismo. Ma chi si illude ormai che la leadership possa rigenerarsi motu proprio ed avviare una profonda svolta?

Vengono al pettine i nodi lasciati aggrovigliare in un lungo arco di tempo, ben oltre la seconda repubblica. Mentre la destra accresce i suoi consensi malgrado le incrinature e si conclude la marcia a ritroso dei post-comunisti, la sinistra si scopre marginale, a rischio d’estinzione per abbandono del campo o per grama e rassegnata sopravvivenza. Per il Paese una fase finisce prima che si intraveda la nuova, e lo stesso accade per la sinistra il cui rinnovamento e la cui ricomposizione presuppongono la messa in discussione di esperienze residuali, senza prospettive ed il ripensamento dei suoi valori, dei suoi presupposti teorici e dei suoi costumi di vita. Unire senza rinnovare, prima che inutile sarebbe impossibile e manca ancora una meta riconoscibile, un pensiero, la volontà di sperimentare un’altra pratica politica. Si cincischia con le due sinistre o la federazione o l’unità d’azione tanto per sentirsi in gioco ma, senza uno scatto, anche la sinistra unita sarebbe destinata a subire più che determinare, gli eventi e non avrebbe certo maggiore appeal ed incidenza.

Ma l’attuale corsa al centro scassa, colpisce al cuore l’equilibrio bipolare quando la grande coalizione non è ancora alle vista né si intuisce una plausibile alternativa. La situazione sembra perciò rimettersi in movimento, e si osservano le differenti ipotesi di riforma elettorale con l’uso strumentale del referendum, come la cartina di tornasole di tendenze e assetti politici che verrebbero enucleandosi, mentre la crisi potrebbe precipitare con esiti sotto ogni aspetto imprevedibili, a Roma come in Calabria.

Cos’altro, dunque, aspettarsi dal governo Prodi che avrà pure stili e competenze non riscontrabili nel governo regionale, ma anche orizzonti non dissimili ed è allo stesso modo restio ai necessari cambiamenti? Le analogie si accompagnano alle specificità che attengono più alla gestione amministrativa che alle scelte strategiche, ingenerando un senso d’inadeguatezza e scoramento. Del resto la nomina del comitato ordinatore del PD ha esplicitato più d’ogni discorso il rapporto non commendevole col governo regionale e,insieme, la natura clientelare del nuovo partito.

Il crescente distacco con la società disegna la parabola del governo. La Calabria sembra così anticipare, nel peggio, tendenze più generali. Demotivata e senza idee si è trascinata nell’inerzia registrando indifferentemente il disastro di Vibo; l’inquinamento del mare; la serrata dei presidi sanitari privati. Non ha avuto cura per l’interesse collettivo e tutte le questioni si sono è incancrenite. Ha subito senza discutere che l’alta velocità si fermasse a Salerno, cioè un ulteriore permanente fattore di squilibrio e marginalità. E nel bla-bla sui grandi progetti e gli investimenti europei, voila l’escamotage, l’alzata d’ingegno che ha eliminato d’un colpo Arsa, Afor, Finanziaria regionale e sei aziende sanitarie: un blitz scriteriato e furbesco allo scopo di contrabbandare l’incapacità di risanare ricostruire riprogettare, come la grande svolta la rottura dell’accerchiamento conservatore e l’avvio di un’era nuova!

 

Una crisi di classe dirigente.

La deriva la vedono tutti. Meno evidente è forse che l’attuale assetto politico-istituzionale coi suoi vincoli, le sue rigidità e i reciproci condizionamenti non permette l’apertura di una breccia nell’attuale assetto di potere e semmai contribuisce a rendere più intricata, chiusa e nel breve periodo senza sbocco, la situazione regionale.

Il nodo è appunto questo. La degenerazione politica accelera, porta con sé una vera e propria crisi di classe dirigente col rischio, intravisto da Piero Bevilacqua nella sua famosa lettera ad Ora Locale che dopo aver saltata la fase dell’industrializzazione, la Calabria subisca ora i contraccolpi dell’economia globalizzata piuttosto che coglierne le opportunità, e si avviti su se stessa e declini irreparabilmente.

E’ davvero un miracolo che in tale deserto l’opinione pubblica non si sia lasciata abbindolare da false suggestioni e, pur rassegnata, segua la vicenda calabrese con disincanto e fastidio; che il malessere sociale alimenti una protesta diffusa, benché polverizzata e poco incisiva per l’esitazione del sindacato a ricondurla ad unità; o che nelle associazioni e sulla stampa locale un’élite si eserciti ancora nella critica, si appassioni e si indigni: segnali di una reattività non spenta né scontata dal momento che la mala politica genera acquiescenza e riflusso, rifiuto della comune responsabilità e antipolitica.

Nondimeno manca una ricerca di senso, l’individuazione di un’uscita di sicurezza che valga a scongiurare la catastrofe. E questo vuoto pericoloso non può che interpellare la coscienza di ciascuno.Appare perciò singolare che pur muovendo da giudizi inappellabili, si invochi la resipiscenza dei responsabili del disastro suggerendo come per una sorta di coazione a ripetere, la riconvocazione d’una assemblea taroccata; oppure che si confidi in una improbabile palingenesi dei partiti o in un influsso rigeneratore del partito democratico quasi potesse per magia emendarsi sovvertendo classi dirigenti e pratiche politiche sotto accusa. Per non dire delle larghe intese sollecitate a più riprese da settori del centrodestra se non per crisi d’astinenza per complicità in affari!

Dice un proverbio che il coniglio ama d’essere scorticato vivo. Ma non penso sia questo il caso; né mi pare che si voglia restare nell’ambiguità o, peggio, prestare un soccorso inconfessabile. L’incoerenza è piuttosto la spia di una difficoltà reale poiché nulla può cambiare restando nel cortile della politica corrente e tuttavia non si riesce a posare lo sguardo oltre la siepe. Un taglio netto contrasta un costume inveterato, specie a sinistra, ed allo stato appare, forse, un’avventura che sgomenta e trattiene. In uno dei suoi celebri incipit, Ernst Bloch ha scritto: “Chi è molto stanziale, non va matto per l’ignoto. Ma c’è anche la canzone: là dove non sei, abita la felicità”. Fondamentale è perciò l’esercizio della ragione. Del resto, altri ha distrutto il mito dell’unità, strumentalizzandola e, con essa, la fiducia e il rispetto su cui può costruirsi un’intesa e regolare correttamente l’agire politico. Far finta di nulla non sarebbe serio.

Cosa fare, dunque? Come si intende, una questione decisiva che non può essere elusa.

 

Progetto Calabrie, o la pretesa di mettere ordine in un porcile.

In altra situazione più infelice Bertold Brecht esortava a diffidare di coloro che pretendono di mettere ordine in un porcile. Qui accade spesso, anche senza malizia; ma si tratta pur sempre di comportamenti sterili che andrebbero riconsiderati per coerenza e per necessità.

D’altronde ci aveva provato Progetto Calabrie e con quale esito si è visto. Col pretesto dell’unità ed in mancanza di una reale sponda a sinistra, Progetto Calabrie fu costretto al suo esordio a legittimare l’impostura dell’assemblea di Lametia, andando incontro a una fase di crescenti difficoltà contraddizioni ed errori sia per l’inaffidabilità degli interlocutori e la vischiosità del sistema che per l’insuffficiente amalgama dei promotori. La vicenda è nota. In quella finzione democratica DS e Margherita avevano intravisto la possibilità di strappare quel che non gli riusciva al tavolo della trattativa romana, recuperando per di più un consenso altrimenti impossibile. Infervorati dalla novità molti di noi scambiammo la forma con la sostanza e dimentichi di una preziosa indicazione di Gramsci: dire la verità è un fatto rivoluzionario, finimmo con l’ingannare noi stessi contraddicendo la nostra essenza di forza nata per rinnovare la vita pubblica regionale.

Anche lo sbarramento elettorale passò grazie al doppio gioco dei partiti, al lavoro sporco dei transfughi e alla subalternità dei gruppi minori pur minacciati nella loro stessa sopravvivenza. Se allora DS e Margherita si sono assunta l’intera responsabilità della manovra, lo SDI ebbe un comportamento incerto e alla fine rinunciatario, mentre RC, stretta anch’essa nelle sue contraddizioni, tenne con Progetto Calabrie un rapporto unitario in apparenza e in realtà diplomatizzato. Si oppose infatti per prima, isolandolo, alla richiesta di rinvio della conferenza che avrebbe dato scacco ai maneggioni e fatto emergere l’imbroglio, con la scusa della ristrettezza dei tempi invece più che sufficienti ad organizzare in Puglia vere elezioni primarie. Rese poi impossibile la formazione di liste di rinnovamento, aperte alla società ed esplicitamente promosse da RC e PC, ed incoraggiò l’approdo in RC di buona parte della componente di sinistra, incrinandone l’originario equilibrio ed impedendogli di fatto la formazione di liste autonome. Risuona l’amara denuncia di Nitti circa la rinuncia ad ogni avvenire per una piccola concessione attuale, ossia per una manciata di voti, non importano le miserie messe in piazza!

Malgrado l’iniziale cedimento -ivi compresa una partecipazione subalterna nel listino-, Progetto Calabrie non si è tuttavia omologato; né ha contrattato secondo l’uso o avanzato domande per incarichi di sottogoverno restando estraneo alle camarille e alle manovre che hanno portato alla presente deriva. D’altronde si è ammessi a tavola solo lasciandosi compromettere. La sua diversità a risultò tuttavia egualmente appannata sino a venir confusi non sempre in buona fede, con quanti volevamo ridimensionare estraniare e combattere. Le scelte di PC hanno contribuito in modo determinante all’affermazione del centro-sinistra, ma esso non è stato per questo premiato ed ha pagato un duro prezzo senza, peraltro, che la Calabria ne traesse un qualche beneficio. Comportamenti da ceto politico, concessioni al personalismo tipico dei partiti e ingenuità hanno infatti alimentato sospetti ingiustificati, sino alla definitiva paralisi determinata da una incredibile opposizione verso una linea di riposizionamento che recuperando la sua ispirazione originaria e restituendo al Movimento una funzione autonoma propositiva e conflittuale al tempo stesso, ne facesse il riferimento essenziale di quanti inseguono un reale cambiamento anche aldilà degli attuali schieramenti.

 

Scomporre, ricomporre e mobilitare le coscienze.

La Calabria è ora a questo punto perché senza alcuna resistenza in luogo della politica è potuto dilagare un politicantismo intrigante e cinico che si è intrufolato ovunque ed ha immiserito, sporcato, deturpato gli aspetti più genuini e promettenti. Quanto a Progetto Calabrie, la riprova che l’insuccesso lungi dal cancellarne la ragione, ne rivelato il limite, con l’avvertenza che su quel terreno chiunque non si integri è destinato a perire; ovvero il tappo può saltare solo perseguendo un altro quadro politico, un diverso blocco sociale, sviluppando un’azione conseguentemente alternativa.

Si pone dunque una questione cruciale. Riecheggiando Esopo, Marx ricorda: “hic Rhodus, hic salta”. Avrebbe pertanto un gran valore che sull’afa opprimente della Calabria ora aleggiasse l’ansia del cambiamento ed un giusto spirito di estraneità e scissione.

Come dunque separare, prendere atto che le strade debbano necessariamente divaricarsi e provare a elaborare una politica di largo respiro facendo appello alle forze più generose ed intellettualmente sgombre e dotate? E come unire, riaggregare su queste nuove basi un movimento; supplire con l’impegno collettivo alle carenze individuali; riordinare la babele, concettuale e semantica, che sottrae ai cittadini la giusta conoscenza delle cose, per raggirarli e tenerli in soggezione? Come realizzare gli strumenti occorrenti per mobilitare le coscienze; stimolare e organizzare l’iniziativa; imparare a governare reggendo gli inevitabili conflitti e le necessarie mediazioni? Come lanciare cioè una scommessa storica con l’obiettivo di un vero rinascimento e aprirsi ad una utopia concreta quale speranza ed alternativa al declino?

Immaginare che in assenza di strategie adeguate si possano affrontare i mali della Calabria con un gesto volontaristico, un colpo di reni o un moto di indignazione rivelerebbe una grave sottovalutazione della questione calabrese e porterebbe in un vicolo cieco. Indignazione e rifiuto del presente stato di cose sono premesse indispensabili, ma non sufficienti. Per Albert Camus dalla rivolta “nasce una presa di coscienza” e l’uomo in rivolta è un uomo che dice no. Ma “qual’è il contenuto di questo no?” Il punto vero è questo, e temo che dispute, proteste e reti associative in sé preziose ai fini di una consapevolezza estesa ed all’avanzamento di un’altra prospettiva possano, sul terreno altrui, senza volerlo aggiungere danno al danno. Basterebbe solo riflettere sull’amara esperienza dei ragazzi di Locri e sull’intervento miserabile che ne ha stroncato lo slancio generoso.

 

Tentare daccapo. Pensando al mondo e senza scorciatoie.

Cosa sarà la Calabria fra 3, 5, 10 anni senza una forte resistenza ed una inversione delle tendenze in atto? L’entità della crisi e il suo procedere rendono il clima irrespirabile. La situazione esige una svolta tempestiva e risoluta e sprona a tentare daccapo, a non lasciarsi andare. Ma condizione pregiudiziale è l’individuazione di un percorso chiaro, democraticamente definito, e che dunque ci si riappropri della politica, ripensandola alla luce della nostra esperienza e rigenerandola sul piano etico e ideale. Il riscatto della Calabria passa, nel disincanto, da questa strettoia.

Torna dunque centrale la questione politica e del rinnovamento del quadro politico-istituzionale lasciato immutato dal cambio di maggioranza, cui connettere un piano di generale ripresa e la sua effettiva realizzabilità. Da tempo la dicotomia destra sinistra non esprime in Calabria alterità di contenuti, nè diverse modalità di governo. Si presenta piuttosto come alternanza del medesimo ceto politico, refrattario ad istanze effettivamente riformatrici ed incline alla preservazione d’un sistema di potere fondato su ingiustizie, inefficienze, uso disinvolto delle risorse pubbliche; e governi privi di forti motivazioni, incuranti del bene comune ed ostili al popolo. Cos’altro testimoniano le devastazioni ambientali; le ruberie, il disordine amministrativo, il fallimento delle aziende pubbliche e miste e i compensi d’oro a spese della collettività?

L’usura di categorie che hanno scandito l’epoca moderna tarpa la democrazia alla base; distorce la rappresentazione della realtà senza mutarne le contraddizioni, le ingiustizie, i conflitti che angustiano l’uomo; confonde le idee e disorienta. Occorrono certamente analisi ed elaborazioni aggiornate, strumenti adeguati di conoscenza e d’intervento. E una ridefinizione, a partire dall’esperienza calabrese, di obiettivi, punti programmatici e forme nuove dell’agire politico per forgiare una coscienza collettiva e verificare attorno ad essa la capacità d’iniziativa e la coerenza delle forze interessate. E su questa base selezionare i gruppi dirigenti. Si tratta di dare organicità a idee suggerimenti osservazioni di cui la pubblicistica è ricca pur senza incontrare l’attenzione dei partiti, e di anticipare una sperimentazione culturale e pratica che ha un riferimento universale, in Italia forse più impellente, cominciando a restituire alla politica -di per sé nè buona né cattiva, ma come la fanno gli uomini- i caratteri primordiali, pre-politici, di serietà rispetto affidabilità per potere intessere una rete di rapporti, solidarietà, comunanza di intenti alla base di una società ordinata.

Altra strada non c’è, anche se verosimilmente l’obiettivo è temerario, quasi un assalto al cielo. Esso presuppone attitudine culturale, senso civico, sensibilità ed intransigenza: doti assai scarse nell’arena politica ma, pur se distratte, presenti nella società. Dove e come individuare tali qualità e selezionarle, fonderle, mobilitarle; come portare ad unità aspirazioni diffuse, un pensiero collettivo straordinariamente vivo ma frammentato; superare vecchi schemi e separatezze per dar corso ad un piano di grandi trasformazioni dentro un ampio contesto storico? Come insomma rimotivare le ragioni umane, dare contenuti e prospettive nuove all’azione politica e vigore ad un progetto di naturale trasformazione dei rapporti sociali e civili?

Io sono convinto che corpi e classi sociali siano oggettivamente interessati ad un cambiamento di fondo, ma nella giostra in cui ci dibattiamo forte è la spinta a conformarsi ai modelli dominanti. Perciò la critica alla borghesia, indiscutibilmente motivata, non assolve l’intera società che avrebbe in sé energie sufficienti a realizzare il cambiamento, ma non ne trova il bandolo e finisce col delegare l’amministrazione della cosa pubblica a partiti rinsecchiti e a faccendieri. L’iniziale esperienza di Progetto Calabrie insegna come attorno ad una altra idea di regione e ad un diverso modo di fare politica, un’avanguardia intellettuale abbia potuto acquistare credito e risollevare in poco tempo la fiducia dei cittadini riavviandone un incipiente circolo virtuoso.

 

I giovani, la cultura, la novità desiderata.

In una intervista-radio Ernst Bloch ha sostenuto che “i tre luoghi in cui il sogno diurno conduce direttamente al nuovo sono gioventù, periodi di svolta, produttività”, luoghi fortemente presenti nella Calabria d’oggi posta di fronte a un bivio e la cui salvezza è affidata solo alla gioventù, altrimenti destinata con essa al sacrificio. Non il solito luogo comune. La sorte della Calabria è affidata veramente ai giovani che noi immaginiamo diversi dai loro padri, istruiti, meno condizionati e aperti al nuovo e tuttavia distolti dalla realtà, disorientati, assuefatti nelle famiglie ad una docile schiavitù, o tentati dalla violenza e dalla droga. Quanti di loro hanno coscienza del ruolo cruciale cui potrebbero assolvere solo che cercassero insieme la chiave del loro futuro scartando ogni illusoria scorciatoia?

Nel dopoguerra J.P.Sartre scrisse del suo amico Paul Nizan - comunista inquieto, calunniato e diseredato dai comunisti, “giovane violento colpito da morte violenta” nella battaglia di Dunkerque- che egli davvero avrebbe potuto parlare ai giovani che in lui riconoscevano la propria voce e dire agli uni: “state morendo di modestia, abbiate il coraggio di desiderare, siate insaziabili, liberate le terribili forze che si fanno la guerra e girano in tondo sotto la pelle, non vergognatevi di volere la luna, ne abbiamo bisogno! E agli altri: dirigete la vostra rabbia su coloro che l’hanno provocata, non cercate di sfuggire al vostro male, cercatene le cause ed eliminatele”.

Da dove, quindi, cominciare? Chi decide lo start? E chi, ed in qual modo, può aiutare i giovani ad esprimere un protagonismo all’altezza di un compito tanto complesso ed arduo? Come poi associare la lotta per la rinascita della Calabria alla grande riforma del mondo per dare all’Italia e all’Europa un ruolo che dilati il nostro orizzonte? Università, scuola, associazionismo, intellettuali: tutte le persone avvertite hanno una straordinaria responsabilità poiché si motiva all’impegno e la svolta prende corpo, solo se oltre la critica, matura una convinzione profonda, avanza una linea condivisa e si ridona la speranza. Non esiste del resto disegno politico che prescinda dalla cultura e sentirsi intanto parte di una Calabria più autentica, culla un tempo del pensiero e di una altissima civiltà e poi depredata schiavizzata lacerata nella sua umanità da una secolare oppressione, ci riconnette alle nostre radici, fa diradare le zone torbide della calabresità, smaschera l’opera deleteria dei gruppi dominanti e dei ceti privilegiati, aiuta a riordinare gli schieramenti attorno ai bisogni e alle essenziali opzioni del popolo.

 

Una lega non Lega, anti-Lega nord.

Necessaria a questo scopo è la costruzione di un movimento politico che rompa con l’attuale assetto, le pratiche correnti, lo spontaneismo e sia animato da una struttura snella ma articolata, gelosa della sua autonomia e della sua diversità, retta da regole che ne garantiscano una effettiva e intensa vita democratica e refrattarietà alle contaminazioni alle lusinghe ai condizionamenti che porta con sé l’attuale fase di decadimento. Un organismo che sappia cioè sperimentare nuove forme della politica, promuovendo il riscatto della Calabria nel quadro di un rinascimento sociale culturale e civile delineato nella Costituzione, posto a fondamento della Repubblica e poi rinnegato e sviato negli anni della guerra fredda, dell’esodo e del boom economico per l’affermarsi del modello americano oggi alle corde. Insomma una sorta di lega non Lega, anti-Lega Nord che nello spirito originario dei primi movimenti sociali, recuperi il senso della sua vicenda tormentata e la consideri una pesante croce su cui costruire una identità regionale, scevra da localismi e grettezze per affondare le sue radici nella cultura, nella storia e nella natura mediterranea, per Paul Valery “all’origine di quella stupefacente trasformazione psicologica e tecnica che in breve volger di secoli ha così profondamente distinto gli Europei dal resto degli uomini e i tempi moderni dalle epoche anteriori”.

Informarsi al pensiero ed allo spirito meridiano, ed alle esperienze che dopo le guerre più sanguinose della storia ne hanno espresso in Europa il carattere inclusivo, di cerniera, e l’apertura sociale e democratica, apre un orizzonte che ha in sé le risposte alla crisi calabrese agognate da tempo immemorabile.

Per battere la violenza ed evitare che le mort prend le vif, la Calabria non ha altre possibilità né altri riferimenti o spazi vitali. Mai come ora, del resto, il destino della Calabria è strettamente legato con quello dell’intero Paese e dell’Europa. Ma come può ottenersi la giusta tensione se intere regioni sono alla sbando? Oggi la seconda repubblica agonizza, scontando un vizio d’origine che risale alla seconda metà degli anni ’70 allorquando il disegno riformatore di Moro, Berlinguer e De Martino fu sacrificato per salvaguardare l’unità della DC e compiacere l’Amministrazione americana. Allora la sconfitta del terrorismo illuse le classi dominanti, ma non risolse la crisi della repubblica sospinta verso la rovina. Apparentemente il PCI crollò sotto le macerie di Berlino; il PSI fu spazzato via da tangentopoli e la DC implose a causa della sua deteriore e asfissiante pratica di potere. Ma fu davvero così o non si trattò piuttosto di uno starnuto in un corpo consunto e alla fine?

Con la proposta del compromesso storico e sollevando la questione morale Enrico Berlinguer aveva tentato assieme a Moro il rinnovamento del Paese. Dalla sua sconfitta prese avvio il processo di decomposizione dello stato democratico di cui la cosiddetta seconda repubblica niente altro è che l’epilogo. Insegna Machiavelli che“tutte le cose del mondo hanno il termine della loro vita…E perché io parlo dei corpi misti, come sono le repubbliche e le sètte, dico che quelle alterazioni sono a salute che le riducano inverso i principi loro. E però quelle sono meglio ordinate ed hanno più lunga vita, che mediante gli ordini suoi si possono spesso rinnovare…Ed è cosa più chiara che la luce, che non rinnovando questi corpi non durano. Il modo del rinnovargli è, come è detto, ridurgli verso e principii suoi. Perché tutti e’ principii delle sette e delle repubbliche e de’ regni conviene che abbiano in sé qualche bontà, mediante la quale ripiglino la prima riputazione ed il primo augumento loro.” Non senza l’ammonimento “che una città venuta in declinazione per corruzione di materia, se mai occorre che la si rilievi, occorre per la virtù d’uno uomo che è vivo allora, non per la virtù dello universale che sostenga gli ordini buoni”.(Discorsi sulla prima deca di Tito Livio).

Ma non è proprio la specificità della questione calabrese a reclamare perciò un cambiamento radicale ed una grande politica per l’Italia?

Non ha pertanto senso chiedere, inutilmente, che se ne vadano: avrebbero un credito che non meritano. Piuttosto, finché persiste una tenue chance, si può provare a riparare i guasti cominciando dalla periferia più estrema e degradata, puntando alla meta col senso della storia?