Pensare in termini di
didattica dell’intelligence per
la prevenzione della
criminalità e la difesa della
democrazia richiede una
riflessione preliminare sullo
status attuale della nostra
democrazia, per cui diventa
necessario porsi anzitutto
qualche domanda sul sistema
democratico e sull’istituzione
Stato in Italia. Dipenderanno,
ovviamente, dal grado di
democraticità delle nostre
istituzioni e della nostra
società, in generale, le
strategie educative e didattiche
che sarà necessario sviluppare
per affrontare le possibilità di
prevenzione della criminalità
come richiesto dal tema qui in
discussione. Uno Stato
democratico non ha bisogno di
sviluppare strategie di
prevenzione della criminalità,
in quanto le sue istituzioni
rappresentano la risposta più
solida e la più efficiente ad
ogni tipo di corruzione. In
Italia probabilmente non è così.
La tenuta delle istituzioni,
inclusa la tenuta della stessa
istituzione “Stato” e, di
conseguenza, la democraticità,
le sue regole, i suoi principi
sono a rischio. Ciò è dimostrato
da strutture criminali
organizzate diffuse e
sistematiche capaci di penetrare
nell’organicità delle
istituzioni. Le stragi criminali
nel nostro paese hanno ormai
tradizione. La coscienza civile,
le istituzioni, lo Stato
sembrano impotenti dinanzi a
questa drammatica realtà. I
disvalori dell’illegalità, della
corruzione e della criminalità
hanno preso ormai il sopravvento
in tutti i settori della vita
civile e pubblica distorcendo
l’idea stessa di democrazia. Una
democrazia nella quale fare il
proprio dovere diventa
l’eccezione e fare il
delinquente o il criminale la
normalità; una democrazia nella
quale si ha paura di dire la
verità perché non solo non si
viene premiati, ma si rischia di
rimanere isolati e maltrattati,
se non addirittura massacrati;
una democrazia che va avanti con
minacce, attentati, bombe,
intimidazioni, incendi di case e
di automobili, è una democrazia
senza sostanza, una democrazia
che ha rinunciato al fondamento
dei suoi valori, ai suoi
principi, alle sue regole. In
una situazione del genere,
diventa obbligatorio porsi
qualche domanda: cos’è veramente
cambiato dalle stragi di
Impastato (1978), Ambrosoli
(1979), Giuliano (1979), Losardo
(1980), La Torre (1982), Dalla
Chiesa (1982), Chinnici (1983),
Fava (1984), Siani (1985),
Livatino (1990), Scopelliti
(1991), Grassi (1991), Falcone
(1992), Borsellino (1992),
Fortugno (2005)? E questi sono
solo alcuni nomi di vittime
uccise dalla criminalità
organizzata. Com’è stato
possibile e com’è possibile,
tuttora, che la nostra
democrazia non riesca a
difendere le sue regole e i suoi
principi e si dimostri debole e
impotente dinanzi ad un
dispiegarsi smisurato di una
criminalità organizzata che
aumenta il suo grado di
influenza sulle nostre regioni,
su tutta la società e
lentamente, ma gradualmente e
sempre di più, si impossessa
delle strutture, di tutte le
strutture della società? Com’è
stato possibile e com’è
possibile, tuttora, che in un
paese come l’Italia, che si
autodefinisce democratico, possa
costituirsi e crescere una
criminalità organizzata di tale
portata devastante?[1].
Di chi le responsabilità? Quali
i complici della distruzione
della democrazia? Dov’è lo
Stato? Dove sono la società
civile e le istituzioni? Quale
il futuro per la nostra
democrazia se non c’è più
settore e sottosettore che non
si regga se non sulla
illegalità, la corruzione e la
criminalità? Quale il futuro
delle generazioni che seguiranno
la nostra se nelle strutture
della nostra società, in tutte
le strutture, si manifestano
sempre di più situazioni palesi
di illegalità, corruzione,
criminalità, al punto che
diritti (i diritti più semplici
come il diritto al lavoro a cui
fa preciso riferimento la nostra
Costituzione, il diritto alle
carriere per meriti, il diritto
ad avere un’impresa, ad aprire
un negozio, a poter lavorare in
tranquillità) non sono più
garantiti, ma diventano favori
ai quali si accede per
raccomandazioni, pressioni,
ricatti, ecc., tal che diviene
necessario inginocchiarsi
davanti ai padroni del
malaffare, della corruzione e
della criminalità;
inginocchiarci, cioè, davanti a
quanti sostituiscono le regole e
i principi della democrazia con
le regole e i principi della
delinquenza? Quale futuro se i
cittadini non si vedono e non si
sentono più difesi dalle e nelle
istituzioni? E per concludere
questa serie di domande: perché
il nostro sistema democratico
non riesce a difendere le
proprie regole e i propri
principi e, in ultima analisi,
la sua stessa sopravvivenza?
Cosa bisogna fare, adesso e
subito, per rispondere a questa
incapacità sul piano pratico e
sul piano teoretico?
È
chiaro che solo in riferimento a
questi interrogativi a monte del
problema - interrogativi che
riguardano il fatto che la
nostra democrazia risulta
vulnerabile proprio nei suoi
punti più costitutivi che sono
le sue regole e i suoi principi
fondamentali - possiamo pensare
in termini di didatticadell’intelligence in
generale e, nel caso specifico,
di didattica
dell’intelligenceper la
prevenzione della criminalità e
la difesa della democrazia.
Le possibili strategie di un
didattica in generale e di una
didattica dell’intelligence
in particolare, saranno, però,
tanto più efficaci quanto più si
riuscirà ad individuare le
condizioni ostative che rendono
difficile se non impossibile
vivere una esperienza sociale
effettivamente democratica. Ma
anche in questa ricerca delle
cause potrebbe risiedere
forse un contributo importante
dell’intelligence ad una
didattica dell’intelligence
e ad una didattica in generale.
Contributo che dovrebbe venire
da quel lavoro stesso che è
specifico e connaturato all’intelligence:
attraverso indagini specifiche e
di ampio raggio, portare allo
scoperto, nel nostro caso, le
logiche e i metodi illegali
utilizzati dalle diverse
fenomenologie criminali di tipo
organizzato e gli intrecci che
esse mantengono e curano con
settori della politica,
dell’economia e della cultura in
generale.
Prima di ritornare, però, su
quel che può essere il
contributo dell’intelligence sia
per una didattica dell’intelligence
che per una didattica in
generale, diventa necessario
avanzare qualche ipotesi
generale e preliminare sul
perché in Italia non si riesca a
vivere un’esperienza
strettamente democratica. Vorrei
per questa via tentare di
avvicinarmi il più possibile al
quadro delle cause da porre a
monte della mancata democrazia.
Si
può e si deve, anzitutto,
constatare che la crisi della
nostra democrazia non è una
questione recente, dovuta solo
al venir meno, in questi ultimi
anni, del ruolo delle
istituzioni, all’impossibilità
formale o sostanziale
di poter partecipare al
sistema democratico
essenzialmente così come
premesso nella carta
costituzionale e per come è
venuto formandosi nei
sessant’anni della sua
esistenza, alla mancanza di
credibilità dei partiti politici
e, in conseguenza di tutto ciò,
alla sfiducia dei cittadini
nella politica in generale e
nella forma della politica
democratica in particolare.
La
crisi della democrazia italiana
è strutturale, abbraccia, cioè,
l’intero sistema e non può
essere superata se non
attraverso un cambiamento
anch’esso strutturale che, se
vuol essere tale, dovrà
interessare sia le sue radici
storiche sia la sua essenza
culturale. Poter essere
cittadini democratici ha
come presupposto inaggirabile
una situazione di vita
democratica. Non si diventa,
cioè, democratici per via di un
orientamento democratico che è
solo formale, in quanto
esiste una costituzione qual è
quella italiana che è
indubbiamente una costituzione
di espressione altamente
democratica. Si diventa
democratici e portatori di
democrazia partecipando ad una
realtà democratica, vivendo
sostanzialmente la
democrazia, in quanto la realtà
che si co-gestisce è essa stessa
una realtà democratica.
Ma
la realtà italiana, nella sua
sostanza, non è una realtà di
democrazia vissuta, ragion per
cui, se vogliamo dare risposte
in termini di strategie
educative e didattiche
efficienti, dobbiamo riflettere
sulle cause che rendono
impossibile tale realtà. Se non
partiamo dalle cause, le nostre
risposte saranno a vuoto!
Quali le cause della mancata
democrazia?
In
verità, è sufficiente uno
sguardo anche superficiale alla
storia della nostra democrazia
per comprendere, senza ombra di
dubbio, che l’idea della
democrazia italiana, legata alla
resistenza e alla ricostruzione
dello Stato italiano del
dopoguerra, è un’idea
giovanissima. La democrazia che
abbiamo basato su questa idea,
che è diventata idea
costituzionale e che doveva,
pertanto, trovare riscontro
anche e soprattutto nelle
istituzioni, in tutte le
istituzioni (se si parla davvero
di istituzioni democratiche e di
una società veramente
democratica) - idea che doveva,
volendo usare una metafora,
diventare corpo e non
rimanere, quindi, solo anima
o forma -, si prefiggeva
di lasciare dietro di sé il
fascismo e una monarchia collusa
con il fascismo e tradursi,
quindi, in sostanza; ma questa
democrazia in itinere non
ha trovato modo per realizzarsi
e diventare esperienza culturale
quotidiana.
Perché in Italia la democrazia
fa fatica a costituirsi sul
piano sostanziale?
“Fatta l’Italia, bisognava fare
gli italiani”, così Massimo
D’Azeglio. Fatta la democrazia
mancavano in Italia i
democratici. Il guaio è che
fatta l’Italia si poteva dire (e
magari forse) fare (anche) gli
italiani, ma il discorso non
valeva e non vale, analogamente,
per la democrazia, perché la
democrazia c’è se essa non è
solo un postulato sulla carta.
In altri termini, la democrazia
non è il risultato di una carta
costituzionale altamente
democratica a cui, in via di
principio, potersi orientare e
appellare. La democrazia c’è,
invece, se, e fino a quando,
essa vive e si alimenta di
regole e principi democratici;
c’è e fino a quando la vita
quotidiana rispecchia queste
regole e questi principi
democratici; c’è se, e fino a
quando, la vita nei suoi
rapporti economici, politici,
culturali è vita democratica;
c’è se, e fino a quando, le
istituzioni sono istituzioni
democratiche; fino a quando il
parlamento, le camere, la vita
pubblica, l’interesse per la
cosa pubblica, diritti e doveri,
legalità sono vissuti
democraticamente. La
democrazia non può essere
delegata. Questo l’errore di
fondo e fatale. Come dire: voi
fate i democratici e noi
pensiamo a diventare i vostri
dittatori di turno; voi parlate
di uguaglianza e noi lavoriamo
per più disuguaglianze; voi
parlate di legalità, di
giustizia e di libertà e noi
alimentiamo la corruzione, la
delinquenza e la criminalità;
voi parlate di “cosa pubblica” e
noi trasformiamo tutto in “cosa
privata” e a nostro esclusivo
vantaggio.
Diversamente da paesi nei quali
l’esperienza democratica poteva
e può vantare una tradizione
consolidata e dove è stato ed è
più facile identificarsi con
l’istituzione che definiamo
Stato, la democrazia italiana è
al suo primo e debole
esperimento. Mi pare un
esperimento condannato a fallire
non solo e non tanto per il
fatto che in Italia sembra quasi
un diritto, se non un bisogno
biologico, porsi contro lo
Stato, ma anche e soprattutto
perché siamo lontani non solo
dall’identificarci con
l’interesse pubblico, ma
riteniamo addirittura un nostro
diritto, se non un obbligo,
pensare la cosa pubblica da
prospettiva privata. Come dire:
cosa ne viene a me
personalmente? Niente? E allora
al diavolo la cosa pubblica e la
democrazia e chi le sostiene.
Accanto allo Stato abbiamo
creato l’Antistato. O meglio:
ancor prima che lo Stato
cosiddetto democratico potesse
almeno formalmente costituirsi e
darsi una costituzione
democratica e crearsi una forma
democratica basata sulle sue
istituzioni, le elezioni, le
camere, diritti e doveri, ecc.,
l’Italia aveva determinate sue
tradizioni antidemocratiche alle
quali non ha rinunciato e non
rinuncia ancora. Tutt’altro! Non
sono solo le tradizioni del
brigantaggio e delle mafie
tradizioni altamente italiane.
Vi erano e vi sono tante forme
anche di massoneria politica e
culturale, ricche di grandi
nomi, popolate da intellettuali,
e che risalgono fino al
Risorgimento italiano (si pensi
al programma della
Restaurazione eal
ruolo della Carboneria).
Tante forme diverse di idee di
Stato, con principi, regole,
stili di vita, ideali, ecc.
Praticamente, accanto al
cosiddetto Stato democratico,
che si è cercato di istituire
sui rottami della tragedia umana
del dopoguerra, molti italiani
(forse la maggioranza degli
italiani) erano e sono
organizzati, si trovano e si
ritrovano in tante forme
parallele di Stato. Seguono
ideali diversi e inseguono forme
diverse di vita sociale: patti,
accordi, strizzate d’occhio,
favori e chi più ne ha più ne
metta sono all’ordine del giorno
e posti ad emblema di un codice
comunicativo assimilabile a
quello delle organizzazioni
criminali mafiose. Gli anni del
dopoguerra, quelli del
“postfascismo” non sono serviti
da noi in Italia, come è stato
normale nella Germania
postnazista, a far riflettere
sul vergognoso passato della
dittatura fascista e avviare una
riflessione pubblica
sull’importanza o, meglio, sulla
necessità della democrazia. Non
solo la barbarie del fascismo
italiano è stata completamente
rimossa e non è divenuta analisi
sistematica nelle nostre scuole
di ogni ordine e grado, ma anche
il valore della democrazia non è
stato oggetto di una dovuta
riflessione pubblica, quella
riflessione che avrebbe forse
realmente permesso a questa
giovane democrazia italiana di
convalidarsi e diffondersi nelle
sue stesse istituzioni e nella
vita pubblica quotidiana.
Diversamente dalla Germania, la
democrazia italiana non ha
ritenuto necessario avviare un
processo di re-education
(ri-educazione). Mentre in
Germania fiorirono e fioriscono
tutt’ora, nelle scuole e nelle
università, le cattedre di
educazione politica (Politiche
Bildung)[2]
e di didattica delle scienze
politiche e sociali, in
Italia si è rimasti all’educazionecivica come appendice
della storia. Ora si
parla di Cittadinanza e
Costituzione, ma siamo
sempre ancora lì a non voler
affrontare il problema vero,
cioè che sulla (propria) storia
non bisogna tacere, ma
riflettere. In altri termini:
non solo in Italia non c’è stato
ciò che in Germania va sotto il
termine di
Vergangenheitbewältigung
(presa di coscienza delle cause
di una tragedia storica e di una
barbarie inaudita assumendosi le
dovute responsabilità), ma è
venuta a mancare anche la
riflessione sulla sostanza
della vita democratica e delle
sue istituzioni; si è tentato e
anzi non mancano oggi ancora
addirittura i tentativi di
rivedere la storia (si pensi al
“revisionismo” avanzato per quel
che riguarda l’insegnamento
della storia nelle nostre
scuole).
Proprio in questo suo ritirarsi
dalla riflessione (politica), la
scuola italiana del dopoguerra
ha fallito il suo compito
prioritario di generare una
coscienza critica pubblica e
democratica. La scuola italiana
si è trincerata in una
pseudo-neutralità. Nella
costruzione dei curricula
si è pensato che dopo gli anni
dell’ideologizzazione dovuta al
regime fascista si dovesse
passare ad una scuola della
non-ideologizzazione, ad una
scuola, appunto, neutrale
e apoliticizzata. Un’idea
ingenua e pericolosa che ha
fatto della scuola italiana non
un laboratorio di esperienza
critica, di riflessione sul
proprio passato e di
preparazione futura ad una
coscienza democratica, ma un
laboratorio del silenzio e del
far finta che la storia è già
passata e non ci tocca o tocchi
solo gli altri paesi. Le scuole
italiane hanno pensato e pensano
tuttora che la miglior politica
è il non parlare di politica,
come se la democrazia non fosse
una forma altamente politica,
anzi la forma politica per
eccellenza di discussione e
critica, di scontro e dialogo,
di dissenso e ricerca di
consenso. La forma in cui
discutere su principi e valori
(anche quelli costituzionali) e
sul senso stesso della
democrazia non è un
fatto, ma il fatto
costitutivo sostanziale senza il
quale non c’è democrazia che
regga e cultura democratica che
possa trovare un suo grado di
sviluppo e di legittimità
pubblica. Per i curricula
la scuola doveva essere e deve
essere tuttora neutrale,
come se la scuola – se scuola è
– possa essere realmente
neutrale; come se la scuola
possa essere esterna al sociale,
esterna al politico, esterna al
culturale; come se potessimo
pensare ad una scuola che non è
portatrice di valori, di ideali,
di principi, di regole e di una
determinata egemonia
politico-culturale; come se la
scuola non avesse una sua
funzione individuale e sociale,
un suo obbligo oltre che il
diritto di essere cosa
pubblica e, quindi, cosa di
tutti e casa di
tutti per il bene di
tutti e non cosa privata
di cui disporre a proprio gusto
e piacimento; come se la scuola
non fosse quell’ambito
fortemente unico, inaggirabile,
in cui la responsabilità sociale
deve essere massima, in quanto,
proprio in tale specifico
ambito, ogni società che si
ritiene democratica non solo
nella forma, ma anche e
soprattutto nella sua vera
sostanza, dovrebbe situare
l’interesse costitutivo,
obbligatorio, irrinunciabile di
responsabilità per la propria
sopravvivenza e la
sopravvivenza delle generazioni
future.
Quel che alla scuola italiana
del dopoguerra è sfuggito e che
anche la scuola attuale fa
fatica a comprendere è che la
democrazia non è una forma di
esperienza che si realizza da
sé. Non c’è una forma
autorealizzantesi di democrazia
come non c’è una ragione
autorealizzantesi nella storia
come pensava Hegel. La mancanza
nelle nostre scuole di una
riflessione critica sul passato
e soprattutto sulle conseguenze
disastrose per le nostre
coscienze civiche dovute al
passato di un regime totalitario
lungo e aggressivo quale è stato
quello fascista, ha indebolito
le forze democratiche
sicuramente presenti in tanti
cittadini italiani e
l’importanza della democrazia
per una civiltà compiuta. Alla
riflessione pubblica, le nostre
scuole hanno preferito il
silenzio sulla storia, il
silenzio sulle proprie
responsabilità. Si trattava,
poi, in ultima analisi, di una
“parentesi storica” (così la
definizione di Croce); in altri
termini: in fondo gli italiani
erano e sono democratici. Anzi a
pensarci meglio: gli italiani
non sono mai stati fascisti;
erano e sono tutti figli della
Resistenza. Perché allora
reclamare e attuare, come in
Germania, un programma di
re-education? Italiani
brava gente. Noi abbiamo,
probabilmente, come unico popolo
sulla terra, democrazia da
vendere…
Lasciamo il passato e diamo uno
sguardo al clima politico
attuale per valutare il grado
attuale della nostra mancanza di
democrazia. Dimentichiamo per un
momento (si fa per dire) mani
pulite. Qual è oggi la
situazione? Mani sporche, mani
pulite? Mani, una sporca una
pulita? Scegliete, ce n’è per
tutti.
Non
credo che ci sia qualcuno che
possa realmente dubitare del
fatto che i partiti politici,
così come si sono costituiti e i
privilegi che si sono
autoconcessi, non solo non
seguono regole e principi
democratici, ma abbiano fatto e
facciano, anche tuttora, a gara
ad alimentare, con tutti i mezzi
(da quelli pubblico-mediatici a
quelli segreti e occulti) che
hanno a disposizione, i propri
bacini di voto e non la
democrazia. Penso non dica
niente di nuovo se porto alla
memoria il fatto, completamente
immorale e antidemocratico, che
una buona parte della politica
italiana (parlo della politica
anche istituzionale) sia una
politica collusa con l’alta e la
bassa criminalità e con
massonerie di vario genere
(inclusa parte di massonerie
deviate)[3].
Ciò
comprova che fare politica in
Italia, non solo non significa
sempre e necessariamente fare
politica democratica, ma che
molti (politici e partiti), se
si prescinde dalla facciata
formale nella quale è obbligo
dichiararsi democratici, se non
addirittura autodefinirsi
paladini della democrazia, non
hanno affatto a cuore l’idea
della necessità di istituzioni
democratiche e di una società
veramente libera e democratica,
ma temono addirittura una
società democratica e le
istituzioni e i controlli
democratici. Ma quelli che non
hanno a cuore, anzi temono la
democrazia, non sono solo i
nostalgici del Duce, coloro
che invocano o sognano la mano
forte, poche chiacchiere e uno
che decide, non importa se ti
taglia la testa o ti prende a
pedate. Non si tratta
socialmente dei pochi, si tratta
dei più, ecco perché solo con un
cambiamento
strutturale-culturale radicale
si potrebbe salvare la nostra
debole democrazia dal suo totale
disfacimento. Quante sono le
regioni in cui le collusioni,
gli accordi, le intese con le
criminalità organizzate sono
all’ordine del giorno? C’è
regione in Italia che riesce a
liberarsi completamente da
collusioni, intese, accordi con
forme di corruzione e di
criminalità? Si può parlare di
democrazia se magistrati, per
svolgere il loro dovere, devono
vivere blindanti? Se
intellettuali, scrittori,
testimoni di giustizia devono
circolare con la scorta se
vogliono uscire di casa? Qual è
il prezzo che la politica
italiana paga per accordi,
intese, corruzioni e collusioni?
Il prezzo che paga è dato da una
situazione, a dir poco,
disastrosa: si vive ai margini
della democrazia, anzi - coperti
da istituzioni, democraticamente
deboli - corruzione e politica
possono crescere e svilupparsi
in una sintonia che condurrà i
deboli resti della nostra
democrazia alla loro fine.
L’Antistato non è questione
legata a singole fasce
(anarchiche) o a pochi sbandati
ed emarginati socialmente.
L’Antistato è una questione
strutturale che coinvolge tutti:
élite e intellettuali
compresi, anzi quest’ultimi sono
forse i maggiori responsabili.
Una questione, cioè, che avvolge
e coinvolge allora le
istituzioni e le classi
politiche attente soprattutto a
consolidare le proprie poltrone
e i propri poteri. In altri
termini: l’Antistato viene
prodotto all’interno delle
stesse istituzioni[4]
che dovrebbero garantire la
democraticità della vita
pubblica e la dinamica della
stessa democrazia.
A
questa forma strutturale di
Antistato che calpesta la
sostanza di ogni idea
democratica e di convivenza
civile è legato, non da ultimo,
il saccheggio sistematico di
gran parte delle risorse
pubbliche. Quel saccheggio dei
fondi pubblici che si nota non
solo in opere avviate e mai
completate, ma, ulteriormente,
anche nel gusto, si potrebbe
dire, di devastare dall’interno
quel poco che è stato
realizzato. Di questo saccheggio
le criminalità organizzate hanno
fatto uno dei loro punti
sistematici forti di ricatto in
cambio di quei bacini di voto,
di cui si parlava sopra, e, se
non si creeranno strategie di
contrasto, tale saccheggio
costituirà la fine del vivere
democratico.
Alla democrazia parlamentare,
come è stata concepita dai padri
della nostra costituzione,
corrisponde il liberismo
economico o, meglio, dovrebbe
corrispondere la concorrenza
del libero mercato. Nei
paesi a democrazia parlamentare
regna, infatti, questa forma di
capitalismo. Ovviamente parlare
di libero mercato e di libera
concorrenza è un modo di dire.
Non c’è bisogno di rinviare alle
teorie sull’imperialismo,
elaborate da Lenin, per dubitare
e della libera concorrenza e del
libero mercato. Ciò che mi preme
sottolineare non è, quindi, il
fallimento delle teorie liberali
e liberiste. Ciò che mi preme
sottolineare è, piuttosto, il
fatto che la collusione
politica-criminalità ed
economia-criminalità[5],
così come va diffondendosi e
ampliandosi, mette a rischio gli
ultimi fondamenti della nostra
immatura democrazia. Mette a
rischio gli ultimi resti del
libero mercato e della libera
concorrenza: altro che
democrazia! Il liberismo
economico, di per sé in
dipendenza da monopoli,
oligopoli e multinazionali,
subirà nella guerra economica,
scatenata da un selvaggia e
sregolata globalizzazione,
ulteriori restrizioni con
l’entrata sempre più incisiva
della criminalità organizzata
nei giochi del mercato.
Da
un rapporto della Confesercenti
si evince che il fatturato delle
mafie (cosa nostra, ‘ndrangheta,
camorra e sacra corona unita),
relativamente al 2008, è di 130
miliardi di Euro, con un utile
netto di 72 miliardi di euro.
Per una valutazione complessiva
del bilancio mafioso si
riportano le singole voci del
bilancio, nonché le passività.
XI Rapporto SOS Impresa: “Le
mani della criminalità sulle
imprese”
Roma 11 novembre 2008
Il bilancio della mafia
A
fronte di questo capitale
ingente, in base al rapporto
Eurispes, solo una famiglia su
tre (e più precisamente il
33,4%) riesce a risparmiare
qualcosa, mentre il 66,1% delle
famiglie non raggiunge, con le
sue entrate, il traguardo di
fine mese. Nello stesso tempo –
e ciò è un altro indizio di
democraticità bruciata e di come
il nostro sistema sia allo
sbaraglio – se per un verso
sempre più famiglie non
raggiungono con il loro reddito
la fine del mese, per altro
verso, le famiglie con un
capitale superiore ad un milione
di euro dovrebbero passare da
239 mila (nel 2006) a 712 mila
(+ 98%) nel 2009.
Gli
effetti di un mercato in mano,
anche se finora solo in parte,
alle criminalità organizzate
saranno ancora più distruttivi
per la già troppo debole
democrazia. Quale libero mercato
può ancora reggere il peso del
malaffare se agli ingenti
capitali di cui dispongono le
criminalità organizzate si
affiancano i metodi delle bombe
e degli incendi, degli agguati e
degli spari, dell’usura e del
pizzo?[6].
Quale democrazia se, nonostante
le devastazioni continue e
sempre più diffuse, regnano
paura e omertà, complicità e
indifferenza? Quale democrazia
se, nemmeno quando essa viene
presa a fucilate, la società
civile e le istituzioni non
trovano la forza per rispondere?
Quale democrazia se la legge non
è uguale per tutti, se la
violenza s’impone sul dialogo,
l’ingiustizia sulla giustizia?
Emergenza criminalità e
democrazia impossibile?
L’illegalità ormai dilaga in
tutto il territorio[7]
con effetti distruttivi sulla
vita economica e sul cosiddetto
libero mercato. Si tenga
conto, per esempio, che oltre
180 mila commercianti sono
coinvolti nel ricatto di pizzo e
usura e che, secondo il Rapporto
“Sos Impresa”, nelle mani delle
organizzazioni criminali
finiscono 250 milioni di euro al
giorno, 10 milioni l’ora,
ovverosia: 160 mila euro al
minuto. Questo è il libero
mercato italiano!
La
vasta rete di diversificazione
dell’affare criminale che va
dalla droga, all’usura, dai
rifiuti (anche tossici) alle
estorsioni sulla rete
commerciale di ogni ordine e
luogo, dal contrabbando al
traffico delle armi, non soffre
affatto della crisi economica
globale, anzi gode dell’effetto
opposto: le attività criminali
dispongono di una liquidità tale
da poter soggiogare e ricattare
tutte quelle imprese in
difficoltà e che sono spinte
dalla crisi all’usura. Il
contributo pagato alle mafie
ammonta a circa 15 miliardi di
euro ogni anno.
Per
quel che riguarda la ferrea
organizzazione dei clan,
solamente la ‘ndrangheta dispone
di un esercito di seimila
affiliati, distribuiti nelle 131
cosche attive sul territorio,
con la media di un affiliato
ogni 345 abitanti. Nell’ultimo
rapporto “Sos Impresa” della
Confesercenti e relativamente
alla Calabria, si dice:
un’intera regione “sotto il
giogo della ‘ndrangheta”. Per il
rapporto della Confesercenti, la
‘ndrangheta è una grande holding
economico-criminale che mantiene
come un tratto costante il
controllo maniacale, quasi
ossessivo, del territorio e
delle strutture sociali ed
economiche. Ciò avviene con una
forte capacità di penetrazione
anche negli appalti pubblici,
negli investimenti dell’edilizia
e nella stessa amministrazione
pubblica[8].
XI Rapporto SOS Impresa: “Le
mani della criminalità sulle
imprese”
Roma 11 novembre 2008
L’organigramma del clan e gli
stipendi (in euro)
Se
ci atteniamo a questi dati
reali, non ha senso parlare di
fenomeno illegalità, in
quanto non ci troviamo solo al
cospetto di singoli casi di
criminalità organizzata e
violenza spesso inaudita,
dinanzi alla guerra tra bande,
cosche e singoli criminali.
Siamo, ovviamente, anche in
presenza di tutto ciò. Ma, come
è noto, a singoli casi si
possono trovare le risposte
giuste anche in tempi
relativamente brevi per il corso
che può sembrare comunque sempre
lento della giustizia. Le
risposte sono difficili, invece,
e possono risultare anche
impossibili se non inutili e,
quindi, anche scoraggiare la
stessa giustizia e noi tutti
come singoli cittadini, laddove
siamo in presenza di una
criminalità, di una illegalità e
di una violenza strutturali
o sistemiche e, quindi,
in presenza di espressioni
criminali che investono
l’intera società[9].
In
quanto forme strutturali e del
sistema, l’illegalità, la
violenza, la corruzione e la
criminalità organizzata si
trasformano, tacitamente e
inesorabilmente, in
istituzioni. Criminalità e
politica, criminalità ed
economia vivono e convivono, a
quel punto, in una simbiosi che
non lascia più alternative alla
legalità e allo spirito
democratico. Se la criminalità
si eleva a struttura,
dobbiamo passare da una risposta
individuale,
fenomenico-episodica, ad una
risposta sociale generale; ad
una risposta di legalità che,
almeno a lungo raggio, trovi lo
spazio per farci uscire dal
labirinto caotico e mostruoso
della giungla selvaggia in cui
rischia di sprofondare la nostra
democrazia e che riesca a farsi
almeno a poco a poco strada e
riguadagnare gradualmente e
sempre più terreno all’interno
di quelle stesse strutture che
hanno trasformato la legalità in
corruzione e la corruzione in
criminalità.
Non
ci siano dubbi: per questo
lavoro lento e faticoso siamo
chiamati in causa tutti e ogni
tipo di intelligence che
la democrazia può produrre. È
troppo facile dire: dov’è lo
Stato? Dov’è la giustizia? Con
altrettanta facilità si potrebbe
chiedere: dov’eri tu quando le
cosche si organizzavano e
bussavano alla tua porta?
Dov’eri tu quando tuo figlio
entrava in questa o quell’altra
organizzazione di criminali?
Perché hai vissuto nell’omertà e
convivi tuttora con e
nell’omertà facendo finta di non
vedere, di non sentire, di non
sapere?
In
democrazia nessuno può sfuggire
all’appello che la legalità deve
essere difesa da ognuno di noi e
non solo dalle forze
dell’ordine; si tratta di
difendere il bene comune[10]
a cui tutti vogliamo partecipare
e a cui tutti, in democrazia,
abbiamo il diritto di
partecipare; si tratta, allora,
di difendere i diritti di
ognuno; solo in questo modo
possiamo difendere anche i
nostri stessi diritti; si
tratta, allo stesso tempo, di
difendere i principi di
giustizia e di libertà sui quali
si basa ogni forma di convivenza
democratica e il futuro
dell’esistenza nostra e quella
delle generazioni future. A
questi diritti si lega il dovere
di impegnarsi per la legalità e
di coltivare il senso della
legalità.
Vivere la legalità è un
principio, ma anche un impegno.
Dove questo principio e questo
impegno vengono meno, avanza
l’indifferenza; questa si
traduce in omertà, in ultima
analisi in accettazione;
l’accettazione non è che
convivenza con la criminalità.
Dove regnano l’indifferenza e
l’omertà, la criminalità può
organizzarsi e fiorire, può
espandersi, rafforzarsi e
trasformarsi, appunto, in quella
fonte distruttiva che scardina
dalle fondamenta i principi
della convivenza civile e della
democrazia. Qui sono chiamate in
causa le scuole di ogni ordine e
grado e nuovamente la fatica
quotidiana, incessante e
logorante degli insegnanti. È
chiamata in causa l’educazione,
tutta l’educazione. L’obiettivo
inaggirabile, fondamentale, è il
principio della giustizia non
come libero arbitrio, ma nella
legalità e nelle regole della
democrazia. Ma ciò presuppone un
lavoro pedagogico e, in ultima
analisi, un lavoro didattico
differenziato che metta in gioco
strategie in corrispondenza
della gravità del problema che
non è più un problema
fenomenico, ma un problema
strutturale della nostra
società.
Ciò
è tanto più importante quanto
più si è sottovalutato e si
continua a sottovalutare il
potenziale di rischio che le
criminalità organizzate
costituiscono per la nostra
fragile democrazia. Ciò è tanto
più importante quanto più
vengono meno le domande su che
cosa si deve fare a livello
politico, economico e culturale
in generale e su cosa spetta
fare a noi tutti, adesso e
subito, a noi cittadini di uno
stato democraticamente debole se
non lo vogliamo perdere del
tutto, ma mantenerlo e
rafforzarlo. Davanti a noi non
c’è un fenomeno. Davanti
a noi ci sono organizzazioni che
lentamente, gradualmente e
sempre più, si stanno
impossessando della politica,
dell’economia, delle istituzioni
e dello Stato. Le organizzazioni
criminali hanno messo le mani su
tutto. Camorra, ‘ndrangheta,
cosa nostra e sacra corona unita
si sono insinuate nelle logge
massoniche e nel sistema
economico corrompendo il sistema
politico. Queste organizzazioni
criminali costituiscono una
holding mondiale del crimine[11].
Si tratta di organizzazioni che
sono riuscite sempre più ad
adattarsi ai processi di
modernizzazione, alle tecnologie
più avanzate e a creare rapporti
stabili con organizzazioni
criminali straniere. Non si
tratta più di fenomeni,
ma di multinazionali della
criminalità. Dinanzi a
criminalità così organizzate, le
strutture e le istituzioni hanno
bisogno di risposte forti. Si
tratta – come si diceva
all’inizio di queste riflessioni
- di riportare le stesse
istituzioni su un nuovo piano di
legalità o meglio: di
riconquistare la legalità
perduta. E in ciò noi tutti
dovremmo essere consapevoli del
fatto che il lavoro difficile,
spesso ormai quasi impossibile
della giustizia, non può fare e
non deve fare a meno del
contributo di ognuno di noi.
Nessuna democrazia può reggersi,
svilupparsi e crescere realmente
sulla violenza generata
dall’illegalità e dalla
criminalità. La democrazia
implica, piuttosto, non solo un
discorrere su regole e principi
democratici, ma anche un
impegnarsi per le regole e i
principi ritenuti democratici.
Accettare la democrazia
significa difenderla e lavorare
affinché essa raggiunga un grado
sempre più elevato e più ampio
di espressione e di
dispiegamento così da
abbracciare le singole
istituzioni, anzi tutte le
istituzioni; significa non solo
partecipare a questo processo
sempre più ampio e universale di
democratizzazione, ma anche
vivere la democrazia
quotidianamente nelle
istituzioni e fuori dalle
istituzioni non solo a parole,
ma come atteggiamento quotidiano
di ogni singola persona.
D’altra parte, come potremmo
altrimenti spiegare ai nostri
figli, ai nostri studenti,
all’opinione pubblica in
generale, che la democrazia è
meglio della dittatura, se la
democrazia viene via via
utilizzata per trasformarla
tacitamente in dittatura?
Come spiegare ai nostri figli,
ai nostri studenti e
all’opinione pubblica, in
generale, che la vita
democratica deve orientarsi ai
principi di giustizia, di
uguaglianza e di libertà se
socialmente si vive di
ingiustizie, si coltivano le
disuguaglianze e la libertà
diventa libertà di saccheggiare
e devastare le risorse
pubbliche, di imporsi sul
mercato con tutti i possibili
mezzi leciti e illeciti e se
regna la libertà di distruggere
anche i principi della vita
democratica e della convivenza
civile?
Come spiegare ai nostri figli,
ai nostri studenti, all’opinione
pubblica, in generale, che è
giusto orientarsi al principio
della legalità, se socialmente
regnano l’illegalità, il
malaffare, la corruzione, la
criminalità?
Fermo l’analisi a queste poche
domande, ma non per dire che,
data la poca democrazia o il
fallimento della nostra fragile
esperienza democratica, possiamo
fare a meno di un tema così
importante come quello qui
oggetto di riflessione o di
riflettere sulle dovute
strategie educative e didattiche
(anche in rinvio alle
possibilità che può offrire una
didattica dell’intelligence
rivolta alla ricostituzione del
potenziale democratico nella
nostra società) per cercare non
solo di salvare e salvaguardare
gli ultimi resti della nostra
democrazia, ma per tentare, a
lungo raggio,di realizzare una
democrazia sempre più ampia e
sempre più piena. Mi fermo qui,
perché sono convinto che
socialmente conviene difendere
questi pochi resti di democrazia
che ancora abbiamo nel nostro
paese. Anzi ritengo che non solo
è di rilevanza esistenziale, per
noi tutti e le generazioni
future, difendere questi ultimi
resti di democrazia, ma che il
nostro compito primario è e sarà
quello di difenderli e
possibilmente ampliarli e
consolidarli. E la scuola
rappresenta uno dei punti di
forza per questa difesa della
democrazia. Ma non dimentichiamo
che anche la scuola è
all’interno e non all’esterno
dei processi sociali, anzi la
scuola è e sarà il prodotto
della società che a monte la
sostiene e la finanzia. E una
società non democratica
esprimerà una scuola
non-democratica, viceversa: una
società democratica esprimerà
una scuola democratica. Dobbiamo
difendere questi ultimi resti di
democrazia perché è mia
convinzione (e credo e spero non
solo mia convinzione) che è più
facile passare da poca
democrazia a più democrazia che
non dalla non-democrazia o dalla
dittatura alla democrazia. E non
sarebbe poi un obiettivo piccolo
evitare che ai nostri figli e ai
nostri studenti venga
risparmiata l’esperienza di
dover passare dalla dittatura
alla democrazia come è successo,
purtroppo, ai padri della nostra
costituzione.
Riflessioni didattiche
In
quanto sopra evidenziato si
evince che il problema si
estende su più livelli:
politico, sociale, economico,
culturale e, in ultima analisi,
come si diceva sopra,
pedagogico. Il problema è,
ovviamente, anche didattico.
Come impostare, cioè, il lavoro
quotidiano del come
educare alla democrazia? Con
quali contenuti
strutturare l’insegnamento e
l’apprendimento orientati al
principio della legalità? Ciò
che si richiede, in un tema così
complesso, sono strategie
didattiche capaci di affrontare
questa complessità che si
dispiegherà necessariamente sui
piani menzionati che formano
allo stesso tempo piani
didattici. Le strategie
didattiche dovranno, appunto,
affrontare i piani della
politica, dell’economia, del
sociale e del culturale. Solo in
questa differenziazione e
nell’intreccio dei piani è
possibile pensare in termini di
una strategia didattica
complessiva e organica che possa
rispondere efficacemente alle
penetrazioni devastanti delle
organizzazioni criminali nelle
strutture della società.
Può
l’intelligence essere di
aiuto in questa ricerca di
ricomposizione delle condizioni
di possibilità di una società
democratica sui quattro piani
della politica, dell’economia,
del sociale e della cultura?
Possono le strategie dell’intelligence
penetrare nei segreti del
malaffare e del malcostume,
della criminalità organizzata e
della politica criminale, ma
anche nella politica della
corruzione e nell’economia del
malaffare in generale e produrre
dall’interno condizioni di
possibilità di aperture
democratiche sempre più ampie,
sempre più diffuse? Può l’intelligence
con le sue strategie aiutare a
formare nei giovani una
coscienza civile contro la
criminalità organizzata e la
perdita della democrazia nelle
istituzioni? L’intelligence
può certamente contribuire
al lavoro di apertura a spazi di
più democrazia. Ciò
significherebbe, d’altronde,
prendere sul serio il lavoro di
difesa delle nostre istituzioni
e non solo. Dico non solo,
perché se il senso dell’intelligence
è quello di difendere lo
Stato e le sue istituzioni
allora diventa un obbligo
difendere la democrazia.
Difendendo la democrazia e la
cultura democratica, si difende,
infatti, lo Stato. Per quanto
debole la nostra democrazia,
essa era e mi auguro rimanga
l’idea fondantedel
nostro Stato. Parliamo di questo
Stato democratico come
espressione di quella resistenza
che l’Italia non più fascista ha
voluto costituire e che è
compito di noi cittadini
salvaguardare e difendere. In
questo senso, per l’intelligence
difendere lo Stato non è
solo questione di “attività
difensive” (di
“contro-intelligence” o
“contro-informazione”) e di
“attività offensive”[12],
ecc.; non si tratterebbe solo di
combattere il “nemico” esterno,
ma anche e soprattutto il
“nemico” interno; in ultima
analisi si tratterebbe del
come salvaguardare i
principi e le regole, gli ideali
e le norme di uno Stato
democratico.
Dal
momento che combattere le
organizzazioni criminali e porsi
su un piano di prevenzione
rispetto alla criminalità
significa raccogliere il maggior
numero possibile di informazioni
e sviluppare strategie anche e
soprattutto dall’interno, l’intelligence
potrebbe sul piano delle
strategie didattiche assumere un
ruolo certamente importante nel
recupero e in difesa della
democrazia[13].
Ovviamente non possiamo pensare
ad una didattica dell’occulto o
ad una didattica segreta. Una
strategia invisibile sul piano
didattico non è democraticamente
produttiva. La democrazia,
infatti, o la vivi o sei fuori
di essa. L’intelligence
potrebbe avere, però, un ruolo
decisivo soprattutto riguardo
allo svisceramento delle
ramificazioni nazionali ed
internazionali che strutturano
le organizzazioni criminali oggi
e legano razionalmente ed
internazionalmente criminalità e
politica, criminalità ed
economia, politica e corruzione
e richiamare così l’attenzione
sul futuro delle nostre
istituzioni e sui rischi della
nostra democrazia. Il nemico
della democrazia non è
necessariamente l’aggressione
antidemocratica dall’esterno,
piuttosto l’assalto quasi
invisibile ma graduale, organico
e costante di forze
antidemocratiche interne allo
stesso sistema democratico come
il radicarsi e diffondersi
sistematico di quell’intreccio
di criminalità politica,
criminalità ed economia che
avvolge le istituzioni e
finanche lo Stato. L’intelligence
potrebbe e dovrebbe mettere a
disposizione informazioni
sull’intreccio di questi
rapporti. Per prevenire è
indispensabile la qualità e la
quantità delle informazioni.
Solo sulla base di queste
informazioni possono essere
sviluppate le strategie
didattiche e ripensati i
rispettivi metodi ed elaborate
le specifiche forme di
apprendimento ed insegnamento.
Solo sulla base di informazioni
valide e assicurate ha senso
organizzare percorsi didattici
che contrastino, combattano e
sconfiggano queste forme
strutturali nazionali ed
internazionali di corruzione,
malaffare, criminalità
organizzata e che avviino a
processi sempre più ampi di
recupero e consolidamento della
democrazia.
Etica e democrazia – Un
rapporto da recuperare e il
contributo dell’intelligence
La
democrazia, come si diceva
sopra, non può essere delegata.
C’è se e fino a quando può
essere vissuta. Ma essa non vive
e si difende da sé. Una
intelligence attuale
riferita alla nostra democrazia
richiede non solo la difesa
dello Stato (in generale), ma
anche la difesa di quell’essenza
che fa di uno Stato uno Stato
davvero democratico. Il nostro
Stato democratico non è,
infatti, espressione del caso,
ma dell’attuazione di
determinati principi o
postulati. Fanno parte di questi
principi o postulati le libertà
civili, politiche e sociali
articolate dopo il fascismo e
che esprimono non solo una
determinata concezione di vita
sociale, ma anche una
determinata antropologia, ossia
un modo specifico di intendere
l’uomo e di assegnargli a priori
dei valori che lo costituiscono
come persona nella sua essenza o
dignità. Sono valori
inviolabili, tanto che la vita
democratica non è costituita
solo dal corrispondere ai
diritti-doveri sanciti dalla
costituzione, ma anche
dall’avere, da cittadino, la
facoltà di orientarsi a scelte
personali e poter esprimere la
propria personalità e a
partecipare direttamente o
indirettamente e, quindi, ad
intervenire nel pubblico
dibattito e contribuire alle
scelte politiche e anche ad una
loro eventuale modifica. Ma sono
valori inviolabili anche per il
fatto che pongono dei limiti
anche al potere dello Stato. Non
solo lo Stato non può valicare
questi limiti senza mettere a
rischio la sua legittimazione,
ma è anche impegnato nel far
rispettare e promuovere questi
valori assegnati a priori alla
persona. Ma dietro le libertà
civili c’è un altro a priori
assegnato di principio o per
natura all’uomo: l’idea dell’uguaglianza.
Il
nostro Stato democratico parte
dal presupposto che tutti gli
uomini sono per natura uguali
come recita la tradizione
illuministica occidentale.
Questo postulato non si basa
sull’uguaglianza reale o
empirica (nel qual caso esso
sarebbe superfluo) tra gli
uomini, ma sulla loro
disuguaglianza di fatto.
Partendo, però, proprio da
questa disuguaglianza empirica o
di fatto, ha senso e assume
rilevanza prioritaria il
postulato o principio
dell’uguaglianza (per natura) e
l’esigenza che poniamo nella
società democratica, in base
alla validità che riconosciamo a
priori di questo principio, che
ognuno possa e debba realizzare
se stesso (diritto di
uguaglianza e diritto di
libertà). Proprio in ragione di
queste disuguaglianze empiriche,
l’uomo ha bisogno di
istituzioni, regole e principi;
ha bisogno dello Stato e di
un’etica minima accettata e
accettabile, in via di
principio, da tutti con la quale
poter corrispondere ai bisogni
di ognuno. Lo Stato democratico,
come istituzione sociale e
prodotto storico della cultura
umana, è il tentativo di dare
una risposta reale a questi
principi a priori che formano la
sua base etica minima
irrinunciabile, espressa nella
formula natural law. Non
è pensabile un’idea di Stato
senza questo consenso minimo.
Per cui, non ogni Stato è
democratico, né uno Stato è
democratico solo perché si
autodefinisce tale. Ma è
democratico quello Stato che
accetta, rispetta e avvia
processi per la realizzazione di
questi principi ritenuti validi
a priori e che non rinuncia ad
appellarsi ad un determinato
concetto di uomo. Non è
pensabile uno Stato democratico
senza un rinvio esplicito ad una
assiomatica antropologica,
quant’anche minima, che assegni
all’uomo, a priori, libertà e
uguaglianza come diritto di
natura. Sulla base dei principi
di libertà e uguaglianza si
spiega, infatti, perché lo Stato
democratico reclami e si orienti
al fine secondo cui diventa
indispensabile la partecipazione
di tutti i suoi cittadini alla
gestione della vita democratica.
Pertanto, l’etica democratica
non è interessata solo ed
esclusivamente al consolidamento
dell’ordine attuale e statuale
della società, ma prepara le
coscienze, partendo dai bisogni
e dalle aspirazione di esse,
all’ordine futuro della gestione
e cogestione sociale. Questi
principi e diritti assegnati a
priori, e che formano
un’antropologia minima
consensuale, costituiscono il
fondamento di ogni democrazia,
in quanto non solo guidano,
limitano e regolano i rapporti
tra uomo e uomo e tra uomo e
Stato, ma fissano anche le
regole entro le quali la
democrazia trova le condizioni
di possibilità di una sua
articolazione e di ogni sua
futura espressione. A ben
vedere, i principi di
uguaglianza e libertà sono
assiomi regolativi che precedono
sia le decisioni politiche dello
Stato che il comportamento del
singolo cittadino. Il consenso
minimo indispensabile a cui si
fa qui riferimento non è vuoto
e, quindi, solo formale, rende
piuttosto ben visibile il limite
che né al singolo né allo Stato
è permesso valicare, se parliamo
di Stato democratico e di
cittadino democratico. In rinvio
a questo consenso minimo, o
concezione antropologica,
possiamo distinguere cosa
democraticamente è giusto e cosa
non è democraticamente giusto.
In democrazia, diversamente che
nella dittatura, non vale la
massima nellapolitica
lo scopo legittima i mezzi,
ma la massima: nella politica
lo scopo non legittima i
mezzi. Non si può venir meno
a questa massima, in quanto la
politica non potrà essere
determinata solo ed
esclusivamente dal suo
successo (più successo delle
dittature, ove i consensi sono
già obbligatoriamente decisi e
definiti?), ma anche e
soprattutto dal prezzo
che per essa bisogna pagare[14].
Ma
non c’è dubbio che proprio dal
fatto che la democrazia e la sua
etica non si intendono da sé, la
possibilità di una politica
democratica è da legare a
determinati sforzi e conquiste
sociali. La società democratica
esige un’educazione democratica
e questa presume una cultura
democratica. La democrazia non
significa necessariamente più
Stato, piuttosto una politica
democratica che funzioni sempre
meglio. Quest’ultima significa:
meno Stato e più autonomia del
singolo. Ma, per funzionare
sempre meglio, la democrazia non
può essere solo delegata,
esige invece coinvolgimento e
responsabilità possibilmente di
tutti i cittadini. Ciò è tanto
più necessario quanto più si
parte dal presupposto che la
democrazia, diversamente dalle
forme totalitarie e
dittatoriali, aspira ad una
partecipazione sempre maggiore
non solo in tutti gli ambiti
istituzionali e non solo
istituzionali, ma anche
nell’ambito della legittimazione
della propria essenza e dei
propri principi fondamentali.
Una democrazia è tanto più
democratica quanto più riesce,
dal suo interno, ad ampliare gli
spazi di discussione e critica;
quanto più il discorso è fonte
di comunicazione pubblica e di
ricerca consensuale globale sui
principi e sulle decisioni
necessarie in ogni democrazia.
Non c’è democrazia che possa
affermarsi e radicarsi nella
realtà sociale se essa non è
espressione del tentativo di
avviare processi che portino ad
una diminuzione crescente
dell’alienazione socialmente
prodotta; se essa non persegue,
cioè, come uno dei suoi
obiettivi prioritari,
l’indebolimento delle strutture
di dominio sociali che producono
questa alienazione a tutto
svantaggio dell’aumento
dell’autonomia e della libertà
dei singoli cittadini[15].
La
politica democratica non è
affatto neutrale ed ha bisogno
di tutti gli strumenti e gli
sforzi democratici per creare i
presupposti di una esperienza di
democrazia realmente vissuta.
Ciò fa presumere l’importanza di
recuperare il rapporto
indispensabile che deve legare
etica e democrazia. Senza questo
legame profondo tra un’etica
orientata ai principi di
libertà, uguaglianza e giustizia
sociale, da un lato, e
autodeterminazione, autonomia e
partecipazione del singolo,
dall’altro, non c’è democrazia
che possa costituirsi, crescere
ed ampliarsi. Tutte le
intelligence[16],
dalla difesa dello Stato alla
difesa dei suoi principi, dalla
difesa delle sue istituzioni
alla difesa della cultura
democratica e alla
istituzionalizzazione di una
scuola democratica, sono
necessarie e premessa
indispensabile in termini di
realizzazione di democrazia e
cultura democratica[17].
Ciò è tanto più necessario
quanto più le istituzioni sono
prese d’assalto da poteri
corrotti e criminali; quanto più
lo Stato legale si trova nella
situazione di dover lottare
contro poteri illegali; quanto
più l’“economia di mercato” deve
fare i conti con una economia
criminale che non conosce più
frontiere, ma si estende
mondialmente mettendo a rischio
la sopravvivenza delle funzioni
democratiche e degli Stati
democratici.
La
democrazia, come si può evincere
da quanto sopra evidenziato, non
è solo un insieme di
procedure e regole formali.
Non c’è, ovviamente, Stato
democratico che possa fare a
meno di procedure e regole
formali a garanzia della sua
democraticità. Non c’è, altresì,
Stato democratico che possa fare
a meno di istituzioni. Ma
regole, procedure e istituzioni
non garantiscono ancora la
democraticità di uno Stato se
vengono a mancare i principi che
sono proprio alla base di
procedure, regole e istituzioni.
Il grado di democraticità di uno
Stato dipenderà dallo spirito di
questi principi che dovranno
alimentare procedure, regole,
istituzioni. Ove questo
spirito verrà a mancare,
verrà a mancare la base su cui
dovrebbe reggersi la democrazia.
Si può notare allora: alla forma
dovrà pur corrispondere una
sostanza. E la sostanza è
data dai principi a monte della
forma.Senza i
principi di libertà e
uguaglianza non hanno senso
procedure, regole, istituzioni.
Come si può essere liberi se si
è privi dei mezzi materiali e
intellettuali, della possibilità
di partecipazione ai processi
decisionali e di
autoesplicazione? In cosa la
democrazia sarebbe diversa dalle
oligarchie e dalle dittature, se
vengono a mancare le libertà
civili, politiche e sociali?[18].
Se non vengono riconosciuti ad
ognuno, a priori o per natura, i
diritti di dignità, di
uguaglianza, di libertà e di
autorealizzazione? Oltre alla
forma abbiamo bisogno allora
della sostanza e per il
raggiungimento di questa
sostanza la via da
percorrere è lunga e non senza
ostacoli come documenta il
disfacimento della democrazia
italiana. Scriveva Norberto
Bobbio, nel 1958, su
“Risorgimento”: “Il cammino
della democrazia non è un
cammino facile. Per questo
bisogna essere continuamente
vigilanti, non rassegnarci al
peggio, ma neppure abbandonarsi
ad una tranquilla fiducia nelle
sorti fatalmente progressive
dell’umanità. Oggi non crediamo,
come credevano i liberali, i
democratici, i socialisti al
principio del secolo, che la
democrazia sia un cammino
fatale. Io appartengo alla
generazione che ha appreso dalla
Resistenza europea qual somma di
sofferenza sia stata necessaria
per restituire l’Europa alla
vita civile. La differenza tra
la mia generazione e quella dei
nostri padri è che loro erano
democratici ottimisti. Noi
siamo, dobbiamo essere,
democratici sempre in allarme”.
Dobbiamo essere, appunto, in
allarme - come dice Bobbio – e
aver cura della democrazia, in
quanto essa non è un dono di
natura né un destino assegnato
all’uomo o intrinseco alla
storia. Tutt’altro: la
democrazia è una fatica storica,
non solo una fatica per
realizzarla, ma anche una fatica
per mantenerla, come scrive
Gustavo Zagrebelsky: “Per la
democrazia, che è il regime di
tutti, occorre una ‘virtù’
particolare, fatta di serietà e
sobrietà negli stili di vita, di
stima reciproca, di spirito
d’uguaglianza, di rifiuto del
privilegio e rispetto del
diritto, di cura per le cose
pubbliche che, essendo di tutti,
non possono essere preda di
nessuno in particolare. Potrei
continuare e sarebbe un elenco
che ci farebbe venire i brividi,
per quanto lontani siamo
dall’aver consolidato quella
molla ideale. L’atteggiamento
etico che è stato diffuso
dappertutto e con tutti i mezzi,
in questi decenni, è l’esatto
contrario di tutto ciò. E ci
stupiamo se avvertiamo la
democrazia scricchiolare?”[19].
L’etica del discorso -
Fondamento della democrazia e
dello Stato di diritto
Da quanto sopra messo in
evidenza e da come si può
evincere dai quadri sinottici
conclusivi di seguito riportati,
per una didattica
dell’intelligencevolta
alla prevenzione della
criminalità e alla difesa della
democrazia, non possiamo fare a
meno di un quadro normativo
organico e differenziato. Ma non
si tratta di un quadro normativo
qualsiasi o in generale. La
democrazia richiede, piuttosto,
l’osservanza di alcuni principi.
Non l’osservanza del principio
“fa quello che vuoi”, in base
alla tua coscienza (egoistica)
singola (autarchica) o
soggettiva; agisci, invece, come
membro responsabile
dell’intersoggettività sociale;
come membro di una comunità
della comunicazione o
interazione per il bene di
tutti; come partecipante alla
comunità discorsiva, espressione
dell’interesse generale e non
solo del singolo.
Si può notare che l’etica che
esprime la democrazia non è un
elenco di valori statici e
assolutizzabili o sovrastorici;
essa piuttosto è l’osservanza,
in senso pragmatico, di alcune
regole o di una Grundnorm
in cui si riconosce, a tutti i
membri della comunità
comunicativa o discorsiva,
uguali diritti. Uguali
diritti è qui da intendere non
come un imperativo categorico
la cui valenza si dà nel ‘regno
dei fini’[20],
ma come simmetria dei
partecipanti alla comunicazione
e alla discorsività la cui
valenza riposa, anzitutto, nella
storicità in cui la simmetria si
attua realmente. Se prendiamo
sul serio l’etica che è alla
base di un’autentica democrazia,
nella discorsività che si svolge
sul piano paritetico e
simmetrico, noi tutti ci
giochiamo la validità delle
nostre pretese e delle nostre
argomentazioni: ci giochiamo,
non da ultimo, il senso della
verità. La democrazia non
presuppone solo il rispetto
reciproco tra i partner del
discorso (in quanto partner
paritetici), ma anche la
corresponsabilità reciproca
che i partecipanti (tutti) al
discorso (pubblico) devono
assumersi nell’interesse di
tutti e non di una parte o di
singoli. Nel senso di Karl-Otto
Apel: “Nel pensiero in quanto
argomentare i partner del
discorso si suppongono sempre
già equiparati e –
rispetto all’articolazione e
alla soluzione di problemi –
quasi ugualmente
corresponsabili in quanto
membri di una comunità
discorsiva ideale illimitata”[21].
In altri termini, chiunque entra
in un’argomentazione (e quale
democrazia può ritenersi tale se
non è fondata sull’argomentabilità
e la condivisione di tale
argomentabilità?), fa
necessariamente appello ad
alcune norme fondamentali (anche
se pragmatiche) se vuole cercare
di stabilire quale opinione
sia quella giusta o
vera o quale pretesa di
parte sia moralmente
legittima. A ben riflettere:
non vi è discorso pratico
disgiunto da tali regole
normative.
L’etica democratica vive del
presupposto che tutte le persone
sono interlocutori validi che
possono partecipare attraverso
il dialogo alla ricerca della
verità e alla migliore analisi e
alla soluzione più adeguata di
tutti i problemi (pubblici) di
volta in volta accettati e
accettabili nelle condizioni più
prossime alla simmetria. Ciò,
però, non significa che le
decisioni moralmente corrette
saranno quelle prese dalla
maggioranza tout court
(questa strategia non
eliminerebbe il rischio
dell’affermarsi o del
consolidarsi di interessi
comunque particolari), piuttosto
quelle in cui tutti i
partecipanti sono considerati
equiparati nei diritti e
nella corresponsabilità
reciproca.
Da ciò si deduce che la
democrazia è un concetto
ideale e allo stesso tempo
un concetto storico. Come
concetto storico, esso è sempre
legato a determinati rapporti
interumani. Le sue regole, i
suoi principi non sono e non
saranno assolutizzabili, ma
nemmeno potranno essere ridotti
a pura contingenza, senza
svuotarsi del loro carattere
emancipativo. Dire democrazia
non significa, allora, status
quo, quale sempre esso sia;
piuttosto processo sempre
nuovamente proiettato nel
futuro. In democrazia, si tratta
sempre di una strategia a lungo
raggio. Una strategia il cui
scopo è, non da ultimo, la
trasformazione delle condizioni
ostative alla stessa
discorsività per una democrazia
realmente sperimentabile. L’imperativo
di una tale impostazione è che
quando si dialoga su norme (ciò
è costitutivo per ogni
democrazia e anche per la difesa
della democrazia e la
prevenzione della criminalità),
bisogna tener conto degli
interessi di tutti; che non ogni
dialogo ci permette di scoprire
se una norma è corretta, bensì
solo quel dialogo che si attiene
ad alcune determinate regole che
gli permettono di
autorealizzarsi in condizioni di
simmetria tra gli interlocutori
e in una discorsività libera da
condizionamenti, coazioni e
domini.
In una democrazia sostanziale,
chiunque è capace di parlare e
di agire può e deve poter
partecipare ai discorsi
(pubblici); chiunque può e deve
poter introdurre nel discorso
(pubblico) le sue
considerazioni; chiunque deve
avere la possibilità di
esprimere (pubblicamente) la sua
posizione, i suoi bisogni e i
suoi desideri[22].
In altri termini, in una
democrazia non solo non è lecito
impedire a qualcuno di far
valere i propri diritti mediante
coazione interna o esterna al
discorso[23],
ma in essa è sempre anche
implicita un’etica del
discorso. Non un’etica
qualsiasi o in generale; non
un’etica riducibile a
razionalità strategica.
Un’etica, invece, che è
razionalità dialogica o
discorsiva e che non nega,
quindi, a nessuno la possibilità
di decidere su pretese di
validità che pervengono a
problemi di ogni tipo solo
per via argomentativa, per
la bontà degli argomenti e non
per persuasione retorica o
negoziazioni ove è in campo,
addirittura, l’uso di “offerte”
o “minacce”. Solo la
comunicazione (razionale) può
aprire alla possibilità di
consensi argomentativi e non
coatti. Solo la comunicazione
(razionale) permette
l’uguaglianza di principio che è
costitutiva per le relazioni
democratiche, in quanto in esse
si oggettiva la reciprocità del
riconoscimento dell’altro e
ognuno può autodeterminarsi
nella forma dell’assenso
condiviso o del dissenso
argomentato. L’etica qui
menzionata è, in verità,
implicita al discorso (ad ogni
discorso serio)[24].
Ma essa è sorretta da un doppio
a priori: dall’a priori della
comunità discorsiva reale e
dall’a priori della
comunità discorsiva ideale,
il cui scopo è la presa di
coscienza di una necessaria
co-responsabilità non solo sul
piano locale, ma anche sul piano
globale e universale[25].
Si va, infatti, dagli effetti
devastanti dei potenziali
bellici di armi di distruzione
di massa alle azioni
terroristiche, da
irresponsabilità individuali a
irresponsabilità collettive
spesso non meno rischiose per la
tenuta della sopravvivenza sul
nostro pianeta. Si pensi, per
esempio, ai grandi rischi per
l’eco-sistema dovuti ad una
sfrenata e sregolata imposizione
della tecnica industriale.
Alla luce di queste sfide
globali, diventa obbligatoria,
per la sopravvivenza dello Stato
di diritto e della democrazia in
generale, una doppia etica. Una
microetica relativamente ai
problemi locali (nazionali) e
una macroetica che tenga conto
della situazione globale o
mondiale. Il che da un punto di
vista didattico comporta una
strategia ineludibile legata ai
presupposti dell’etica del
discorso al cui centro sta
l’intesa condivisibile,
ragionata e responsabile per la
soluzione (su basi discorsive e
dell’argomentazione) dei
problemi locali, universali e
che interessano tutti. La
strategia didattica discorsiva
dovrà mettere in evidenza le
violenze strutturali, ma anche
linguistiche e normative che
costituiscono le fonti
generative di coazione,
coercizione, violenza e dominio.
Anche il linguaggio, se pensiamo
ai codici di massonerie,
camorra, ‘ndrangheta, cosa
nostra, sacra corona unita, può
diventare uno strumento di
potere, mistificazione e
distorsione della verità, per
cui occorre sviluppare i
corrispettivi antidoti, affinché
la forza e la prepotenza, la
corruzione e la criminalità
possano essere sostituite dal
dialogo e dalla responsabilità
reciproca.
Una didattica dell’intelligence
orientata alla prevenzione della
criminalità e alla difesa della
democrazia ha bisogno di un quadro
normativo generale ampio e
differenziato a cui orientarsi entro
cui collocare le strategie
educative. Le seguenti tre sinossi
raccolgono le categorie centrali di
questo quadro normativo.
Prima
sinossi
Partendo dall’obiettivo generale di
prevenire e neutralizzare la
criminalità organizzata in tutte le
sue manifestazioni per la sicurezza
dei cittadini e la difesa dei
diritti e delle garanzie contenuti
nella Costituzione e nelle Leggi,
si delineano i seguenti obiettivi ed
interventi specifici.
Obiettivi ed
interventi specifici di una
didattica dell’intelligence
per la prevenzione della
criminalità organizzata e la
difesa della democrazia:
·
Consapevolezza delle dimensioni del problema
·
Responsabilizzazione e corresponsabilità
·
Analisi legislativa e normativa in materia di prevenzione e
sicurezza
·
Ricerca e raccolta di informazioni documentabili
·
Utilizzo della tecnologia e dei sistemi di informazione
·
Organizzazione e conduzione di indagini e ricerche
·
Ampliamento dell’informazione sul fenomeno della criminalità
organizzata o fenomeni similari
·
Elaborazione di programmi e azioni per garantire la sicurezza
pubblica
·
Coordinazione interistituzionale che includa i cittadini, la società
civile e le sue organizzazioni più significative
·
Coordinazione/cooperazione internazionale e scambio di informazioni
·
Elaborazione di misure contro la penetrazione della delinquenza
negli organi preposti alla sicurezza
·
Salvaguardia dei principi e delle regole di uno Stato democratico
·
Ricostituzione del potenziale democratico nella nostra società
·
Garantire la piena validità dello Stato di diritto
Prima di passare alla
seconda sinossi, si delineano alcuni
punti centrali per una messa a fuoco
diagnostica delle diverse
fenomenologie criminali di tipo
organizzato. Attraverso tale messa a
fuoco, volta a valutare i fattori
economici e sociali nonché l’impatto
di tipo psicologico del crimine
organizzato, sarà possibile definire
strategie destinate a prevenirlo e
combatterlo.
Forme e strutture del crimine
organizzato
Organizzazioni
criminali
Mafie tradizionali
Mafie nuove
Organizzazioni politiche estremiste
Terrorismo
Delinquenza informatica, ecc.
Rapporti/Intrecci
Internazionali (Intercontinentali)
tra le Mafie
Aspetti storici, sociali,
psicologici
Fattori politici, culturali,
economici
Seconda sinossi
Idea di democrazia
(demos:
popolo, kratIA:
governo)
Partecipazione,
Autodeterminazione
Lo Stato democratico
come istituzione sociale
e prodotto storico
Democrazia formale e
sostanziale
Rapporto
Etica/Diritto/Politica
Microetica e Macroetica
I diversi tipi di
Costituzione
La Costituzione Italiana
Cornice normativa e
legislativa
Lo status attuale
della nostra democrazia
Vulnerabilità della
nostra democrazia
“Cittadinanza e Costituzione”
Educazione libera e aperta a tutti
(artt. 33-34)
Formazione di Personalità libere e
responsabili
Rispetto del Bene Comune
Partecipazione al Bene Comune
Agire
ispirato alla ricerca dell’interesse
generale
4. Corresponsabilità, collaborazione
e co-partecipazione
Intersoggettività/Universalità
Parità dei diritti/Uguaglianza di
opportunità
Consenso/dissenso democratici
Negoziazione/Cooperazione
sociale/Solidarismo
Partecipazione, gestione e cogestione
sociale
Democrazia partecipativa
Pensiero critico, aperto, flessibile,
inclusivo
Imparzialità e trasparenza
Cittadinanza democratica come impegno
partecipativo
5. Assiomatica antropologica
Assiomi regolativi
Status sociale e dignità ontologica
dell’uomo
Uguaglianza, Autonomia, Autorealizzazione
Emancipazione individuale e sociale
Interculturalità e multiculturalismo
Identità e Relazione
Rapporto aperto e solidale con l’altro
Integrazione fra singolo e comunità
6. Cultura della legalità
Educazione etico-politica
Rifiuto della criminalità e della
corruzione
Rispetto delle leggi e delle norme
Rispetto dei diritti umani
Maggiore responsabilità pubblica
Educazione alla responsabilità civica
Consapevolezza critica e autoriflessione
Promozione di consenso intorno ai principi
etici basilari
*Contributo
di prossima pubblicazione in
L’intelligence e le
scienze della formazione.
Un primo approccio per
un’educazione alla
democrazia,
a cura di Mario Caligiuri, pref. di V. Burza, introd.
di G. Spadafora.
[1] In
base al Rapporto Sos Impresa
(2007), sono ventimila i
“dipendenti” di cosa
nostra, ‘ndrangheta,
camorra e sacra
corona unita. Per quel
che riguarda
l’organizzazione affaristica
di cosa nostra,
“l’archivio segreto” di
Salvatore e Sandro Lo
Piccolo offre dati molto
chiari: gli affari vanno
dalle sale Bingo nel nord
Italia ed in Sicilia alle
sorgenti d’acqua nell’isola
ed in Calabria, al traffico
di cocaina con il sud
America gestito con la
‘ndrangheta. Non mancano i
nomi di tutti gli “uomini
d’onore”, tutti gli appalti
pubblici e privati, dai
lavori all’aeroporto di
Palermo a quelli degli
ospedali, delle caserme,
della metanizzazione, della
metropolitana, dei lavori al
tribunale; la mappa del
pizzo: centinaia di
imprenditori, commercianti,
artigiani, parrucchieri,
pescivendoli che pagano con
cadenza mensile o annuale.
[2]
K. G. Fischer, Einführung
in die Politische Bildung,
Metzler, Stuttgart, 3a ed.
1973. Versione
italiana (di M. Borrelli con
introduzione di L. Corradini):
L’Educazione Politica nella
Germania Federale, Le
Monnier, Firenze, 1979.
[3]Cfr.
N. Gratteri, A. Nicaso, M.
Borrelli, Il grande
inganno – I falsi
valori della ‘ndrangheta,
Pellegrini, Cosenza, 2008;
A. Nicaso, Senza Onore –
Antologia di testi letterari
sulla ‘ndrangheta,
Prefazione di M. Borrelli,
Pellegrini, Cosenza, 2007.
[4] Piero
Grasso, procuratore
nazionale antimafia,
nell’audizione del 7
febbraio 2007 ha detto:” In
certi paesi della Calabria è
lo Stato che deve cercare di
infiltrarsi” a sottolineare
che molte aree del Sud sono
sotto il totale controllo
delle organizzazioni
criminali. (Relazione finale
della Commissione
parlamentare antimafia del
19 febbraio 2008).
[5] Enzo
Macrì , magistrato della
Direzione nazionale
antimafia, nella sua
audizione ha detto, in
riferimento alle cosche:
“sono degli interlocutori
istituzionali del potere,
quasi necessari,
imprescindibili: se è così,
possono essere irrogate
anche le condanne più
pesanti, ma se poi a ogni
consultazione elettorale
sono regolarmente sentiti
per avere il loro appoggio,
se l’offerta di beni e
soprattutto di servizi che
loro sono in grado di
prestare è ormai
monopolistica perché hanno
eliminato la
concorrenza…allora diventano
interlocutori, attori e
protagonisti necessari e
ineliminabili. Questo
consente la loro
sopravvivenza in eterno”
(Relazione finale della
Commissione parlamentare
antimafia del 19 febbraio
2008).
[6] Per
avere un’idea
dell’impressionante
condizionamento mafioso sul
tessuto economico italiano,
riporto solo alcuni dati
relativi alla situazione
degli imprenditori nel
mezzogiorno assoggettati al
racket delle estorsioni,
all’usura, rapine, truffe,
ecc. In base alle stime di
“Sos Impresa”, i reati al
giorno sono 1.300, 50
all’ora. Solo in Sicilia, in
50 mila pagano il pizzo (da
200 a 500 euro al mese i
negozi; da 750 a 1000 euro
quelli più eleganti); 5000
euro al mese i supermercati;
10.000 euro al mese i
cantieri. Le imprese edili
pagano a vano costruito; per
gli appalti pubblici la
quota va dal 2 al 3 per
cento. A fronte di questa
situazione non c’è un
aumento, ma un calo delle
denunce. Proprio in Sicilia,
Calabria, Campania e Puglia
le denunce non arrivano
nemmeno alla metà di quelle
del resto del paese. Si
scrive nel Rapporto Sos
Impresa (2007): “Il gotha
della grande impresa
italiana, soprattutto quella
impegnata nei grandi lavori
pubblici preferisce venire a
patti con la mafia piuttosto
che denunciare i ricatti. Il
perché è chiaro: conviene
così. Le imprese scendono a
patti per il quieto vivere,
quasi a sottoscrivere una
polizza preventiva e corrono
dal mafioso perché si
vogliono mettere in regola”.
[7] Scrive
Luciano Gallino in la
Repubblica del 21/02/2009:
“Si possono utilizzare
diverse immagini allo scopo
di definire il nocciolo del
caso Italia. Tra le tante ho
scelto l’immagine d’una
società che con i suoi
comportamenti collettivi si
pone molto al di sotto della
lex, la Legge con la
maiuscola, quel sistema di
rapporti tra individui e
collettività che è
considerato un elemento
essenziale della condizione
civile nell’età moderna ed
ha il suo sommo nella
Costituzione. Nella lunga
scala che porta a una
condizione civile la società
italiana ha salito molti
gradini, ma altri ne ha
discesi. Al presente si
colloca forse a uno dei
livelli più bassi della sua
storia, non foss’altro
perché i rapporti che la
legge dovrebbe regolare onde
far procedere la società
verso una ideale condizione
civile diventano sempre più
complessi”.
[8]Si
legge ancora nel Rapporto in
riferimento alla Calabria:
“Le cosche calabresi sono
pienamente consapevoli di
poter disporre di risorse
umane di alto profilo
professionale nei campi
giuridici ed economici in
grado di orientare gli
investimenti e di creare
artifici per ostacolare
l’accertamento della
provenienza illecita dei
capitali” e ancora:
“L’operazione Anaconda dello
scorso giugno, ha svelato
addirittura l’esistenza di
una ‘banca occulta’ gestita
da una delle cosche più
pericolose della città”. Si
tratta della città di
Cosenza.
[9] Un
esempio di queste
infiltrazioni strutturali è
dato dalla ‘ndrangheta: “A
fronte della fragilità e
permeabilità dell’apparato
politico amministrativo…la
‘ndrangheta ha
manifestato…una rapida
capacità di adeguarsi alle
trasformazioni economiche e
sociali. Forte del suo
atavico radicamento
territoriale…ha acquistato
una sempre maggiore capacità
di condizionamento degli
apparati amministrativi e
politici calabresi. Esempi
emblematici rimangono i casi
del porto di Gioia Tauro e
dell’autostrada
Salerno-Reggio Calabria, su
cui le cosche hanno esteso
nel tempo i loro tentacoli
sovrastando in alcune fasi
il tentativo di contrasto…In
entrambi i casi risulta
essersi perpetuato il
perverso paradigma in base
al quale le infiltrazioni
della ‘ndrangheta negli
appalti e subappalti per la
realizzazione delle grandi
infrastrutture…sono state
favorite nel corso dei
decenni dagli accordi
stretti, e spesso raggiunti
in via preventiva, tra le
grandi imprese nazionali e i
capi delle più importanti
famiglie mafiose. Tali patti
non si sarebbero potuti
stringere in assenza di un
sistema di connivenze con
gli apparati
politico-amministrativi”.
(Relazione della Commissione
parlamentare antimafia
presieduta da Francesco
Forgione, 2008).
[10]
L’impegno per il bene comune
è una questione legata al
concetto di cittadinanza.
Claudio De Luca scrive in
proposito: “Nel quadro di un
progetto educativo, si può
intendere il termine
«cittadinanza» non solo nel
significato formale come
insieme di regole,
storicamente date, che
garantiscono la giustizia e
l’uguaglianza (cittadinanza
giuridica e politica), ma
anche nel senso sostanziale
che comprende la
realizzazione del bene
comune riconoscendo insieme
le identità e le differenze
proprie della società
pluralista (cittadinanza
sociale)”. C. De Luca,
Partecipazione, democrazia e
legalità nella comunità
scolastica, in E.
Caterini, Profili di
educazione alla cittadinanza
attiva - Compendio didattico,
Postfazione di G. Spadafora,
Edizioni Scientifiche
Calabresi, Rende 2008, p.49.
[11]Scrive
giustamente Mario Caligiuri
nel suo lavoro La
formazione delle élite– Una Pedagogia per la
democrazia, Rubbettino,
Soveria Mannelli, 2008, p.
135: “Ampliamente
sottovalutato e legato al
futuro della democrazia è lo
scontro tra Stato legale e
poteri illegali, dovuto
all’ampliarsi dell’economia
criminale, che ha assunto
dimensioni planetarie,
caratterizzando sempre di
più le dinamiche economiche
e sociali”; cfr. anche L.
Napoleoni, Economia
canaglia. Il lato oscuro del
nuovo ordine mondiale,
Il Saggiatore, Milano, 2008.
[12]
Francesco Cossiga riassume
nel modo seguente gli
obiettivi dell’attivitàoffensiva di “intelligence”:
“La caratteristica delle
attuali forme di
‘intelligence’ offensiva
è che esse, in relazione
alla globalità degli
interessi dello Stato da
difendere e da promuovere,
sono diventate, per quanto
attiene ai loro obiettivi,
attività a carattere
generale, che cioè assumono
come interessi dello Stato
da tutelare non soltanto la
difesa militare o generale e
la sicurezza pubblica in
senso stretto, ma anche le
attività di politica estera,
gli interessi finanziari,
economici, scientifici,
industriali e l’identità
culturale e nazionale stessa
del paese. Con il che le
notizie – ivi compresi
documenti e materiali – da
raccoglier dai servizi di
informazione ‘in quanto
altrimenti non ottenibili’
è di quel tipo di azione
occulta che si chiama
volgarmente spionaggio
– attengono non
solamente all’organizzazione
militare o di sicurezza
interna del Paese di
interesse, ma anche e
sempre più e anzi in misura
preminente rispetto alla
strategia militare e alla
sicurezza interna, alla sua
attività di politica
interna, alla sua vita
economica, alle sue attività
scientifiche, industriali,
di ricerca, nonché agli
aspetti molteplici della
vita della cosiddetta
società del Paese di
interesse. Per questo i
servizi di informazione si
sono evoluti nei Paesi
moderni da servizi di
interesse militare a servizi
di interesse generale o
strategici e per questo
hanno acquisito sempre più
la configurazione di :
“Agenzie governative
autonome” (in F.
Cossiga, I servizi e le
attività di informazione e
di controinformazione –
ABECEDARIO per i
principianti, politici e
militari, civili e gente
comune. Compilato da
Francesco Cossiga –
dilettante, Presentazione di
M. Caligiuri, Rubbettino,
Soneria Mannelli, 2002, pp.
31-32).
[13] “L’Intelligence
non deve essere
l’attività illegale dello
Stato. Al limite può essere
una attività extra giuridica
necessaria e legittimata dal
concetto di Ragion di Stato,
dal bene dello Stato o,
meglio ancora, per lo Stato.
Anzi, l’Intelligence
è indispensabile a una
democrazia perché le
permette di non uscire dalla
legalità. Infatti, in un
sistema democratico, e a
maggior ragione nella
democrazia della governance
in cui l’azione affianca, e
sempre più spesso
sostituisce, il governo, non
è mai vero che il fine
giustifica i mezzi. È vero
al contrario che i mezzi,
legittimando le azioni dei
soggetti politici,
giustificano il fine” (cfr.
A. Ceci, Intelligence e
democrazia. La relazione
responsiva nella società
della comunicazione,
Rubbettino, Soneria
Mannelli, 2007, p. 143).
[14] Cfr.
K. G. Fischer,
L’educazione politica nella
Germania Federale, cit.,
p. 128.
[15]Scrive
Kurt Gerhard Fischer:
“L’educazione politica
democratica si intende
orientata verso
l’autodeterminazione e la
partecipazione: essa vuole
mettere in grado gli uomini,
anche nell’educazione degli
adulti, di riconoscere la
realtà sociale, di
riconoscersi in essa per
giudicarla e, se necessario,
per cambiarla. Essa deve
pensare che gli uomini sono
capaci, nella situazione
concreta,di
scegliere e di usare i mezzi
adeguati al cambiamento”
(cfr. K.G. Fischer,
L’educazione politica nella
Germania Federale, cit.,
p. 74).
[16]
“Eppure di intelligence
e security il
nostro Paese ha bisogno
(come ne hanno bisogno gli
altri Paesi democratici,
perché è proprio un’esigenza
della democrazia difendersi
dai pericoli maggiori per la
sicurezza dello Stato, dato
che gli stati totalitari, in
quanto tali, hanno un
controllo appunto
totalitario della vita
politica, civile, culturale,
economica, sociale e
quotidiana della comunità)”,
cfr. F. Cossiga,
Prefazione, inR.
D. Steele, Intelligence.
Spie e segreti in un mondo
aperto, Rubbettino,
Soneria Mannelli, 2002, p.
7.
[17]Scrive
Steele in Intelligence,
cit., pp. 159-60:
“L’Intelligence può avere un
ruolo molto significativo
nella ristrutturazione del
nostro Governo nazionale e
dei suoi rapporti con il
settore privato;
l’Intelligence può essere
insegnante, mentore, guardia
del corpo ed allenatore.
L’Intelligence nazionale è
una componente essenziale
della nostra competenza,
visione, senso della
direzione e coesione
nazionali”.
[18]Scrive
Nadia Urbinati in la
Repubblica del 10 febbraio
2009, p. 28: “È la difesa
della democrazia la vera
posta in gioco oggi. Perché
se nell’antichità la
democrazia era vista e
pensata come governo dei
poveri, le democrazie dei
moderni si reggono su una
larga classe media. La lotta
non è pertanto tra un
modello socialista e uno
liberale, ma invece tra una
società oligarchica o una
società democratica. Forse è
la prima volta che si
sperimenta in maniera forte
e chiara che la reale
alternativa alla democrazia
costituzionale è la tirannia
dei pochi”…”La questione
quindi non è tanto quella di
opporre Stato e mercato per
ridare all’esecutivo una
funzione direttiva, come
ripetono i proclami dei
nostri ministri economici.
Il problema è invece quello
di recuperare appieno il
valore della democrazia…”.
[19] S.
Fiori, “Le libertà oggi a
rischio” – Intervista a
Gustavo Zagrebelsky, in:
Repubblica, 8 gennaio, 2009,
p. 37.
[20] Cfr.
M. Borrelli, Lettere a
Kant. La
trasformazione apeliana
dell’etica kantiana, 1a
ed., 2005, 2a ed. ampliata,
Pellegrini, Cosenza, 2008.
[21] K.-O.
Apel, Lezioni di Aachen e
altri scritti, a cura,
traduzione e presentazione
di M. Borrelli, Pellegrini,
Cosenza, 2004, p. 170.
[22]
Scrive Habermas: “In uno
Stato democratico di
diritto, le lotte per il
riconoscimento avranno forza
legittimante solo nella
misura in cui tutti i gruppi
possono accedere alla sfera
politica, far sentire la
loro voce, articolare i loro
bisogni, insomma solo nella
misura in cui nessuno venga
emarginato o escluso”
(cfr. J.
Habermas, Ein Gespräch
über Fragen der politischen
Theorie, in Die
Normalität einer Berliner
Republik, Suhrkamp,
Frankfurt a.M., 1995; tr.
it. a cura di D. L.
Ceppa, Conversazione con
Michael Carleheen e René
Gabriels, in J.Habermas,
Solidarietà tra estranei.
Interventi su ‘Fatti e
norme’, Guerini e
Associati, Milano, 1997, p.
131.
[23]Cfr. J.
Habermas, Moralbewußtsein
und kommunikatives Handeln,
Suhrkamp, Frankfurt a.M.,
1983; tr. it. di E. Agazzi,
Etica del
discorso, Laterza,
Roma-Bari, 3a ed., 2000, p.
99.Cfr. anche F.
Caputo, Scienza
pedagogica comunicativa:
Jürgen Habermas,
Pellegrini, Cosenza, 2003.
[24] Se
seguiamo le impostazioni di
Habermas e Apel, al discorso
sono impliciti i seguenti
presupposti: pretesa di
senso
intersoggettivamente valido
(il suo assolvimento è
premessa a tutte le altre
pretese di validità);
pretesa di verità (in
quanto pretesa di consenso
universale); pretesa di
franchezza o di
veridicità (che deve
essere contenuta in ogni
atto linguistico con cui si
avanza una pretesa di
validità); pretesa di
giustezza normativa
(moralmente rilevante e con
cui si esige, dal partner
della comunicazione,
l’assenso a una pretesa di
verità) (cfr. Lezioni di
Aachen e altri scritti,
cit., p. 89).
[25] Cfr.
M. Borrelli, Ermeneutica
trascendentale e fondazione
ultima di filosofia e
scienza. Introduzione al
pensiero di Karl-Otto Apel,
Pellegrini, Cosenza, 2008.