Michele Borrelli

Didattica dell’intelligence

per la prevenzione della criminalità e

la difesa della democrazia*

 

Pensare in termini di didattica dell’intelligence per la prevenzione della criminalità e la difesa della democrazia richiede una riflessione preliminare sullo status attuale della nostra democrazia, per cui diventa necessario porsi anzitutto qualche domanda sul sistema democratico e sull’istituzione Stato in Italia. Dipenderanno, ovviamente, dal grado di democraticità delle nostre istituzioni e della nostra società, in generale, le strategie educative e didattiche che sarà necessario sviluppare per affrontare le possibilità di prevenzione della criminalità come richiesto dal tema qui in discussione. Uno Stato democratico non ha bisogno di sviluppare strategie di prevenzione della criminalità, in quanto le sue istituzioni rappresentano la risposta più solida e la più efficiente ad ogni tipo di corruzione. In Italia probabilmente non è così. La tenuta delle istituzioni, inclusa la tenuta della stessa istituzione “Stato” e, di conseguenza, la democraticità, le sue regole, i suoi principi sono a rischio. Ciò è dimostrato da strutture criminali organizzate diffuse e sistematiche capaci di penetrare nell’organicità delle istituzioni. Le stragi criminali nel nostro paese hanno ormai tradizione. La coscienza civile, le istituzioni, lo Stato sembrano impotenti dinanzi a questa drammatica realtà. I disvalori dell’illegalità, della corruzione e della criminalità hanno preso ormai il sopravvento in tutti i settori della vita civile e pubblica distorcendo l’idea stessa di democrazia. Una democrazia nella quale fare il proprio dovere diventa l’eccezione e fare il delinquente o il criminale la normalità; una democrazia nella quale si ha paura di dire la verità perché non solo non si viene premiati, ma si rischia di rimanere isolati e maltrattati, se non addirittura massacrati; una democrazia che va avanti con minacce, attentati, bombe, intimidazioni, incendi di case e di automobili, è una democrazia senza sostanza, una democrazia che ha rinunciato al fondamento dei suoi valori, ai suoi principi, alle sue regole. In una situazione del genere, diventa obbligatorio porsi qualche domanda: cos’è veramente cambiato dalle stragi di Impastato (1978), Ambrosoli (1979), Giuliano (1979), Losardo (1980), La Torre (1982), Dalla Chiesa (1982), Chinnici (1983), Fava (1984), Siani (1985), Livatino (1990), Scopelliti (1991), Grassi (1991), Falcone (1992), Borsellino (1992), Fortugno (2005)? E questi sono solo alcuni nomi di vittime uccise dalla criminalità organizzata. Com’è stato possibile e com’è possibile, tuttora, che la nostra democrazia non riesca a difendere le sue regole e i suoi principi e si dimostri debole e impotente dinanzi ad un dispiegarsi smisurato di una criminalità organizzata che aumenta il suo grado di influenza sulle nostre regioni, su tutta la società e lentamente, ma gradualmente e sempre di più, si impossessa delle strutture, di tutte le strutture della società? Com’è stato possibile e com’è possibile, tuttora, che in un paese come l’Italia, che si autodefinisce democratico, possa costituirsi e crescere una criminalità organizzata di tale portata devastante?[1]. Di chi le responsabilità? Quali i complici della distruzione della democrazia? Dov’è lo Stato? Dove sono la società civile e le istituzioni? Quale il futuro per la nostra democrazia se non c’è più settore e sottosettore che non si regga se non sulla illegalità, la corruzione e la criminalità? Quale il futuro delle generazioni che seguiranno la nostra se nelle strutture della nostra società, in tutte le strutture, si manifestano sempre di più situazioni palesi di illegalità, corruzione, criminalità, al punto che diritti (i diritti più semplici come il diritto al lavoro a cui fa preciso riferimento la nostra Costituzione, il diritto alle carriere per meriti, il diritto ad avere un’impresa, ad aprire un negozio, a poter lavorare in tranquillità) non sono più garantiti, ma diventano favori ai quali si accede per raccomandazioni, pressioni, ricatti, ecc., tal che diviene necessario inginocchiarsi davanti ai padroni del malaffare, della corruzione e della criminalità; inginocchiarci, cioè, davanti a quanti sostituiscono le regole e i principi della democrazia con le regole e i principi della delinquenza? Quale futuro se i cittadini non si vedono e non si sentono più difesi dalle e nelle istituzioni? E per concludere questa serie di domande: perché il nostro sistema democratico non riesce a difendere le proprie regole e i propri principi e, in ultima analisi, la sua stessa sopravvivenza? Cosa bisogna fare, adesso e subito, per rispondere a questa incapacità sul piano pratico e sul piano teoretico?

È chiaro che solo in riferimento a questi interrogativi a monte del problema - interrogativi che riguardano il fatto che la nostra democrazia risulta vulnerabile proprio nei suoi punti più costitutivi che sono le sue regole e i suoi principi fondamentali - possiamo pensare in termini di didattica dell’intelligence in generale e, nel caso specifico, di didattica dell’intelligence per la prevenzione della criminalità e la difesa della democrazia. Le possibili strategie di un didattica in generale e di una didattica dell’intelligence in particolare, saranno, però, tanto più efficaci quanto più si riuscirà ad individuare le condizioni ostative che rendono difficile se non impossibile vivere una esperienza sociale effettivamente democratica. Ma anche in questa ricerca delle cause potrebbe risiedere forse un contributo importante dell’intelligence ad una didattica dell’intelligence e ad una didattica in generale. Contributo che dovrebbe venire da quel lavoro stesso che è specifico e connaturato all’intelligence: attraverso indagini specifiche e di ampio raggio, portare allo scoperto, nel nostro caso, le logiche e i metodi illegali utilizzati dalle diverse fenomenologie criminali di tipo organizzato e gli intrecci che esse mantengono e curano con settori della politica, dell’economia e della cultura in generale.

Prima di ritornare, però, su quel che può essere il contributo dell’intelligence sia per una didattica dell’intelligence che per una didattica in generale, diventa necessario avanzare qualche ipotesi generale e preliminare sul perché in Italia non si riesca a vivere un’esperienza strettamente democratica. Vorrei per questa via tentare di avvicinarmi il più possibile al quadro delle cause da porre a monte della mancata democrazia.

Si può e si deve, anzitutto, constatare che la crisi della nostra democrazia non è una questione recente, dovuta solo al venir meno, in questi ultimi anni, del ruolo delle istituzioni, all’impossibilità formale o sostanziale di poter partecipare al sistema democratico essenzialmente così come premesso nella carta costituzionale e per come è venuto formandosi nei sessant’anni della sua esistenza, alla mancanza di credibilità dei partiti politici e, in conseguenza di tutto ciò, alla sfiducia dei cittadini nella politica in generale e nella forma della politica democratica in particolare.

La crisi della democrazia italiana è strutturale, abbraccia, cioè, l’intero sistema e non può essere superata se non attraverso un cambiamento anch’esso strutturale che, se vuol essere tale, dovrà interessare sia le sue radici storiche sia la sua essenza culturale. Poter essere cittadini democratici ha come presupposto inaggirabile una situazione di vita democratica. Non si diventa, cioè, democratici per via di un orientamento democratico che è solo formale, in quanto esiste una costituzione qual è quella italiana che è indubbiamente una costituzione di espressione altamente democratica. Si diventa democratici e portatori di democrazia partecipando ad una realtà democratica, vivendo  sostanzialmente la democrazia,  in quanto la realtà che si co-gestisce è essa stessa una realtà democratica.

Ma la realtà italiana, nella sua sostanza, non è una realtà di democrazia vissuta, ragion per cui, se vogliamo dare risposte in termini di strategie educative e didattiche efficienti, dobbiamo riflettere sulle cause che rendono impossibile tale realtà. Se non partiamo dalle cause, le nostre risposte saranno a vuoto!

 

Quali le cause della mancata democrazia?

In verità, è sufficiente uno sguardo anche superficiale alla storia della nostra democrazia per comprendere, senza ombra di dubbio, che l’idea della democrazia italiana, legata alla resistenza e alla ricostruzione dello Stato italiano del dopoguerra, è un’idea giovanissima. La democrazia che abbiamo basato su questa idea, che è diventata idea costituzionale e che doveva, pertanto, trovare riscontro anche e soprattutto nelle istituzioni, in tutte le istituzioni (se si parla davvero di istituzioni democratiche e di una società veramente democratica) - idea che doveva, volendo usare una metafora, diventare corpo e non rimanere, quindi, solo anima o forma -,  si prefiggeva di lasciare dietro di sé il fascismo e una monarchia collusa con il fascismo e tradursi, quindi, in sostanza; ma questa democrazia in itinere non ha trovato modo per realizzarsi e diventare esperienza culturale quotidiana.

 

Perché in Italia la democrazia fa fatica a costituirsi sul piano sostanziale?

“Fatta l’Italia, bisognava fare gli italiani”, così Massimo D’Azeglio. Fatta la democrazia mancavano in Italia i democratici. Il guaio è che fatta l’Italia si poteva dire (e magari forse) fare (anche) gli italiani, ma il discorso non valeva e non vale, analogamente, per la democrazia, perché la democrazia c’è se essa non è solo un postulato sulla carta. In altri termini, la democrazia non è il risultato di una carta costituzionale altamente democratica a cui, in via di principio, potersi orientare e appellare. La democrazia c’è, invece, se, e fino a quando, essa vive e si alimenta di regole e principi democratici; c’è e fino a quando la vita quotidiana rispecchia queste regole e questi principi democratici; c’è se, e fino a quando, la vita nei suoi rapporti economici, politici, culturali è vita democratica; c’è se, e fino a quando, le istituzioni sono istituzioni democratiche; fino a quando il parlamento, le camere, la vita pubblica, l’interesse per la cosa pubblica, diritti e doveri, legalità sono vissuti democraticamente. La democrazia non può essere delegata. Questo l’errore di fondo e fatale. Come dire: voi fate i democratici e noi pensiamo a diventare i vostri dittatori di turno; voi parlate di uguaglianza e noi lavoriamo per più disuguaglianze; voi parlate di legalità, di giustizia e di libertà e noi alimentiamo la corruzione, la delinquenza e la criminalità; voi parlate di “cosa pubblica” e noi trasformiamo tutto in “cosa privata” e a nostro esclusivo vantaggio.

Diversamente da paesi nei quali l’esperienza democratica poteva e può vantare una tradizione consolidata e dove è stato ed è più facile identificarsi con l’istituzione che definiamo Stato, la democrazia italiana è al suo primo e debole esperimento. Mi pare un esperimento condannato a fallire non solo e non tanto per il fatto che in Italia sembra quasi un diritto, se non un bisogno biologico, porsi contro lo Stato, ma anche e soprattutto perché siamo lontani non solo dall’identificarci con l’interesse pubblico, ma riteniamo addirittura un nostro diritto, se non un obbligo,  pensare la cosa pubblica da prospettiva privata. Come dire: cosa ne viene a me personalmente? Niente? E allora al diavolo la cosa pubblica e la democrazia  e chi le sostiene.

Accanto allo Stato abbiamo creato l’Antistato. O meglio: ancor prima che lo Stato cosiddetto democratico potesse almeno formalmente costituirsi e darsi una costituzione democratica e crearsi una forma democratica basata sulle sue istituzioni, le elezioni, le camere, diritti e doveri, ecc., l’Italia aveva determinate sue tradizioni antidemocratiche alle quali non ha rinunciato e non rinuncia ancora. Tutt’altro! Non sono solo le tradizioni del brigantaggio e delle mafie tradizioni altamente italiane. Vi erano e vi sono tante forme anche di massoneria politica e culturale, ricche di grandi nomi, popolate da intellettuali, e che risalgono fino al Risorgimento italiano (si pensi al programma della Restaurazione e al ruolo della Carboneria). Tante forme diverse di idee di Stato, con principi, regole, stili di vita, ideali, ecc. Praticamente, accanto al cosiddetto Stato democratico, che si è cercato di istituire sui rottami della tragedia umana del dopoguerra, molti italiani (forse la maggioranza degli italiani) erano e sono organizzati, si trovano e si ritrovano in tante forme parallele di Stato. Seguono ideali diversi e inseguono forme diverse di vita sociale: patti, accordi, strizzate d’occhio, favori e chi più ne ha più ne metta sono all’ordine del giorno e posti ad emblema di un codice comunicativo assimilabile a quello delle organizzazioni criminali mafiose. Gli anni del dopoguerra, quelli del “postfascismo” non sono serviti da noi in Italia, come è stato normale nella Germania postnazista, a far riflettere sul vergognoso passato della dittatura fascista e avviare una riflessione pubblica sull’importanza o, meglio, sulla necessità  della democrazia. Non solo la barbarie del fascismo italiano è stata completamente rimossa e non è divenuta analisi sistematica nelle nostre scuole di ogni ordine e grado, ma anche il valore della democrazia non è stato oggetto di una dovuta riflessione pubblica, quella riflessione che avrebbe forse realmente permesso a questa giovane democrazia italiana di convalidarsi e diffondersi nelle sue stesse istituzioni e nella vita pubblica quotidiana. Diversamente dalla Germania, la democrazia italiana non ha ritenuto necessario avviare un processo di re-education (ri-educazione). Mentre in Germania fiorirono e fioriscono tutt’ora, nelle scuole e nelle università, le cattedre di educazione politica (Politiche Bildung)[2] e di didattica delle scienze politiche e sociali, in Italia si è rimasti all’educazione civica come appendice della storia. Ora si parla di Cittadinanza e Costituzione, ma siamo sempre ancora lì a non voler affrontare il problema vero, cioè che sulla (propria) storia non bisogna tacere, ma riflettere. In altri termini: non solo in Italia non c’è stato ciò che in Germania va sotto il termine di Vergangenheitbewältigung (presa di coscienza delle cause di una tragedia storica e di una barbarie inaudita assumendosi le dovute responsabilità), ma è venuta a mancare anche la riflessione sulla sostanza della vita democratica e delle sue istituzioni; si è tentato e anzi non mancano oggi ancora addirittura i tentativi di rivedere la storia (si pensi al “revisionismo” avanzato per quel che riguarda l’insegnamento della storia nelle nostre scuole).

Proprio in questo suo ritirarsi dalla riflessione (politica), la scuola italiana del dopoguerra ha fallito il suo compito prioritario di generare una coscienza critica pubblica e democratica. La scuola italiana si è trincerata in una pseudo-neutralità. Nella costruzione dei curricula si è pensato che dopo gli anni dell’ideologizzazione dovuta al regime fascista si dovesse passare ad una scuola della non-ideologizzazione, ad una scuola, appunto, neutrale e apoliticizzata. Un’idea ingenua e pericolosa che ha fatto della scuola italiana non un laboratorio di esperienza critica, di riflessione sul proprio passato e di preparazione futura ad una coscienza democratica, ma un laboratorio del silenzio e del far finta che la storia è già passata e non ci tocca o tocchi solo gli altri paesi. Le scuole italiane hanno pensato e pensano tuttora che la miglior politica è il non parlare di politica, come se la democrazia non fosse una forma altamente politica, anzi la forma politica per eccellenza di discussione e critica, di scontro e dialogo, di dissenso e ricerca di consenso. La forma in cui discutere su principi e valori (anche quelli costituzionali) e sul senso stesso della democrazia non è un fatto, ma il fatto costitutivo sostanziale senza il quale non c’è democrazia che regga e cultura democratica che possa trovare un suo grado di sviluppo e di legittimità pubblica. Per i curricula la scuola doveva essere e deve essere tuttora neutrale, come se la scuola – se scuola è  –  possa essere realmente neutrale; come se la scuola possa essere esterna al sociale, esterna al politico, esterna al culturale; come se potessimo pensare ad una scuola che non è portatrice di valori, di ideali, di principi, di regole e di una determinata egemonia politico-culturale; come se la scuola non avesse una sua funzione individuale e sociale, un suo obbligo oltre che il diritto di essere cosa pubblica e, quindi, cosa di tutti e casa di tutti per il bene di tutti e non cosa privata di cui disporre a proprio gusto e piacimento; come se la scuola non fosse quell’ambito fortemente unico, inaggirabile, in cui la responsabilità sociale deve essere massima, in quanto, proprio in tale specifico ambito, ogni società che si ritiene democratica non solo nella forma, ma anche e soprattutto nella sua vera sostanza, dovrebbe situare l’interesse costitutivo, obbligatorio, irrinunciabile di responsabilità per la propria sopravvivenza e la sopravvivenza  delle generazioni future.

Quel che alla scuola italiana del dopoguerra è sfuggito e che anche la scuola attuale fa fatica a comprendere è che la democrazia non è una forma di esperienza che si realizza da sé. Non c’è una forma autorealizzantesi di democrazia come non c’è una ragione autorealizzantesi nella storia come pensava Hegel. La mancanza nelle nostre scuole di una riflessione critica sul passato e soprattutto sulle conseguenze disastrose per le nostre coscienze civiche dovute al passato di un regime totalitario lungo e aggressivo quale è stato quello fascista, ha indebolito le forze democratiche sicuramente presenti in tanti cittadini italiani e l’importanza della democrazia per una civiltà compiuta. Alla riflessione pubblica, le nostre scuole hanno preferito il silenzio sulla storia, il silenzio sulle proprie responsabilità. Si trattava, poi, in ultima analisi, di una “parentesi storica” (così la definizione di Croce); in altri termini: in fondo gli italiani erano e sono democratici. Anzi a pensarci meglio: gli italiani non sono mai stati fascisti; erano e sono tutti figli della Resistenza. Perché allora reclamare e attuare, come in Germania, un programma di re-education? Italiani brava gente. Noi abbiamo, probabilmente, come unico popolo sulla terra, democrazia da vendere…

Lasciamo il passato e diamo uno sguardo al clima politico attuale per valutare il grado attuale della nostra mancanza di democrazia. Dimentichiamo per un momento (si fa per dire) mani pulite. Qual è oggi la situazione? Mani sporche, mani pulite? Mani, una sporca una pulita? Scegliete, ce n’è per tutti.

Non credo che ci sia qualcuno che possa realmente dubitare del fatto che i partiti politici, così come si sono costituiti e i privilegi che si sono autoconcessi, non solo non seguono regole e principi democratici, ma abbiano fatto e facciano, anche tuttora, a gara ad alimentare, con tutti i mezzi (da quelli pubblico-mediatici a quelli segreti e occulti) che hanno a disposizione, i propri bacini di voto e non la democrazia. Penso non dica niente di nuovo se porto alla memoria il fatto, completamente immorale e antidemocratico, che una buona parte della politica italiana (parlo della politica anche istituzionale) sia una politica collusa con l’alta e la bassa criminalità e con massonerie di vario genere (inclusa parte di massonerie deviate)[3].

Ciò comprova che fare politica in Italia, non solo non significa sempre e necessariamente fare politica democratica, ma che molti (politici e partiti), se si prescinde dalla facciata formale nella quale è obbligo dichiararsi democratici, se non addirittura autodefinirsi paladini della democrazia, non hanno affatto a cuore l’idea della necessità di istituzioni democratiche e di una società veramente libera e democratica, ma temono addirittura una società democratica e le istituzioni e i controlli democratici. Ma quelli che non hanno a cuore, anzi temono la democrazia, non sono solo i nostalgici del Duce, coloro che invocano o sognano la mano forte, poche chiacchiere e uno che decide, non importa se ti taglia la testa o ti prende a pedate. Non si tratta socialmente dei pochi, si tratta dei più, ecco perché solo con un cambiamento strutturale-culturale radicale si potrebbe salvare la nostra debole democrazia dal suo totale disfacimento. Quante sono le regioni in cui le collusioni, gli accordi, le intese con le criminalità organizzate sono all’ordine del giorno? C’è regione in Italia che riesce a liberarsi completamente da collusioni, intese, accordi con forme di corruzione e di criminalità? Si può parlare di democrazia se magistrati, per svolgere il loro dovere, devono vivere blindanti? Se intellettuali, scrittori, testimoni di giustizia devono circolare con la scorta se vogliono uscire di casa? Qual è il prezzo che la politica italiana paga per accordi, intese, corruzioni e collusioni? Il prezzo che paga è dato da una situazione, a dir poco, disastrosa: si vive ai margini della democrazia, anzi - coperti da istituzioni, democraticamente deboli - corruzione e politica possono crescere e svilupparsi in una sintonia che condurrà i deboli resti della nostra democrazia alla loro fine.

L’Antistato non è questione legata a singole fasce  (anarchiche) o a pochi sbandati ed emarginati socialmente. L’Antistato è una questione strutturale che coinvolge tutti: élite e intellettuali compresi, anzi quest’ultimi sono forse i maggiori responsabili. Una questione, cioè, che avvolge e coinvolge allora le istituzioni e le classi politiche attente soprattutto a consolidare le proprie poltrone e i propri poteri. In altri termini: l’Antistato viene prodotto all’interno delle stesse istituzioni[4] che dovrebbero garantire la democraticità della vita pubblica e la dinamica della stessa democrazia.

A questa forma strutturale di Antistato che calpesta la sostanza di ogni idea democratica e di convivenza civile è legato, non da ultimo, il saccheggio sistematico di gran parte delle risorse pubbliche. Quel saccheggio dei fondi pubblici che si nota non solo in opere avviate e mai completate, ma, ulteriormente, anche nel gusto, si potrebbe dire, di devastare dall’interno quel poco che è stato realizzato. Di questo saccheggio le criminalità organizzate hanno fatto uno dei loro punti sistematici forti di ricatto in cambio di quei bacini di voto, di cui si parlava sopra, e, se non si creeranno strategie di contrasto, tale saccheggio costituirà la fine del vivere democratico.

Alla democrazia parlamentare, come è stata concepita dai padri della nostra costituzione, corrisponde il liberismo economico o, meglio, dovrebbe corrispondere la concorrenza del libero mercato. Nei paesi a democrazia parlamentare regna, infatti, questa forma di capitalismo. Ovviamente parlare di libero mercato e di libera concorrenza è un modo di dire. Non c’è bisogno di rinviare alle teorie sull’imperialismo, elaborate da Lenin, per dubitare e della libera concorrenza e del libero mercato. Ciò che mi preme sottolineare non è, quindi, il fallimento delle teorie liberali e liberiste. Ciò che mi preme sottolineare è, piuttosto, il fatto che la collusione politica-criminalità ed economia-criminalità[5], così come va diffondendosi e ampliandosi, mette a rischio gli ultimi fondamenti della nostra immatura democrazia. Mette a rischio gli ultimi resti del libero mercato e della libera concorrenza: altro che democrazia!  Il liberismo economico, di per sé in dipendenza da monopoli, oligopoli e multinazionali, subirà nella guerra economica, scatenata da un selvaggia e sregolata globalizzazione, ulteriori restrizioni con l’entrata sempre più incisiva della criminalità organizzata nei giochi del mercato.

Da un rapporto della Confesercenti si evince che il fatturato delle mafie (cosa nostra, ‘ndrangheta, camorra e sacra corona unita), relativamente al 2008, è di 130 miliardi di Euro, con un utile netto di 72 miliardi di euro. Per una valutazione complessiva del bilancio mafioso si riportano le singole voci del bilancio, nonché le passività.

 

XI Rapporto SOS Impresa: “Le mani della criminalità sulle imprese”

Roma 11 novembre 2008

Il bilancio della mafia

A fronte di questo capitale ingente, in base al rapporto Eurispes, solo una famiglia su tre (e più precisamente il 33,4%) riesce a risparmiare qualcosa, mentre il 66,1% delle famiglie non raggiunge, con le sue entrate, il traguardo di fine mese. Nello stesso tempo – e ciò è un altro indizio di democraticità bruciata e di come il nostro sistema sia allo sbaraglio – se per un verso sempre più famiglie non raggiungono con il loro reddito la fine del mese, per altro verso, le famiglie con un capitale superiore ad un milione di euro dovrebbero passare da 239 mila (nel 2006) a 712 mila (+ 98%) nel 2009.

Gli effetti di un mercato in mano, anche se finora solo in parte, alle criminalità organizzate saranno ancora più distruttivi per la già troppo debole democrazia. Quale libero mercato può ancora reggere il peso del malaffare se agli ingenti capitali di cui dispongono le criminalità organizzate si affiancano i metodi delle bombe e degli incendi, degli agguati e degli spari, dell’usura e del pizzo?[6]. Quale democrazia se, nonostante le devastazioni continue e sempre più diffuse, regnano paura e omertà, complicità e indifferenza? Quale democrazia se, nemmeno quando essa viene presa a fucilate, la società civile e le istituzioni non trovano la forza per rispondere? Quale democrazia se la legge non è uguale per tutti, se la violenza s’impone sul dialogo, l’ingiustizia sulla giustizia?

 

Emergenza criminalità e democrazia impossibile?

L’illegalità ormai dilaga in tutto il territorio[7] con effetti distruttivi sulla vita economica e sul cosiddetto libero mercato. Si tenga conto, per esempio, che oltre 180 mila commercianti sono coinvolti nel ricatto di pizzo e usura e che, secondo il Rapporto “Sos Impresa”, nelle mani delle organizzazioni criminali finiscono 250 milioni di euro al giorno, 10 milioni l’ora, ovverosia: 160 mila euro al minuto. Questo è il libero mercato italiano!

La vasta rete di diversificazione dell’affare criminale che va dalla droga, all’usura, dai rifiuti (anche tossici) alle estorsioni sulla rete commerciale di ogni ordine e luogo, dal contrabbando al traffico delle armi, non soffre affatto della crisi economica globale, anzi gode dell’effetto opposto: le attività criminali dispongono di una liquidità tale da poter soggiogare e ricattare tutte quelle imprese in difficoltà e che sono spinte dalla crisi all’usura. Il contributo pagato alle mafie ammonta a circa 15 miliardi di euro ogni anno.

Per quel che riguarda la ferrea organizzazione dei clan, solamente la ‘ndrangheta dispone di un esercito di seimila affiliati, distribuiti nelle 131 cosche attive sul territorio, con la media di un affiliato ogni 345 abitanti. Nell’ultimo rapporto “Sos Impresa” della Confesercenti e relativamente alla Calabria, si dice: un’intera regione “sotto il giogo della ‘ndrangheta”. Per il rapporto della Confesercenti, la ‘ndrangheta è una grande holding economico-criminale che mantiene come un tratto costante il controllo maniacale, quasi ossessivo, del territorio e delle strutture sociali ed economiche. Ciò avviene con una forte capacità di penetrazione anche negli appalti pubblici, negli investimenti dell’edilizia e nella stessa amministrazione pubblica[8].

 

XI Rapporto SOS Impresa: “Le mani della criminalità sulle imprese”

Roma 11 novembre 2008

L’organigramma del clan e gli stipendi (in euro)

 

Se ci atteniamo a questi dati reali, non ha senso parlare di fenomeno illegalità, in quanto non ci troviamo solo al cospetto di singoli casi di criminalità organizzata e violenza spesso inaudita, dinanzi alla guerra tra bande, cosche e singoli criminali. Siamo, ovviamente, anche in presenza di tutto ciò. Ma, come è noto, a singoli casi si possono trovare le risposte giuste anche in tempi relativamente brevi per il corso che può sembrare comunque sempre lento della giustizia. Le risposte sono difficili, invece, e possono risultare anche impossibili se non inutili e, quindi, anche scoraggiare la stessa giustizia e noi tutti come singoli cittadini, laddove siamo in presenza di una criminalità, di una illegalità e di una violenza strutturali o sistemiche e, quindi, in presenza di espressioni criminali che investono l’intera  società[9].

In quanto forme strutturali e del sistema, l’illegalità, la violenza, la corruzione e la criminalità organizzata si trasformano, tacitamente e inesorabilmente, in istituzioni. Criminalità e politica, criminalità ed economia vivono e convivono, a quel punto, in una simbiosi che non lascia più alternative alla legalità e allo spirito democratico. Se la criminalità si eleva a struttura, dobbiamo passare da una risposta individuale, fenomenico-episodica, ad una risposta sociale generale; ad una risposta di legalità che, almeno a lungo raggio, trovi lo spazio per farci uscire dal labirinto caotico e mostruoso della giungla selvaggia in cui rischia di sprofondare la nostra democrazia e che riesca a farsi almeno a poco a poco strada e riguadagnare gradualmente e sempre più terreno all’interno di quelle stesse strutture che hanno trasformato la legalità in corruzione e la corruzione in criminalità.

Non ci siano dubbi: per questo lavoro lento e faticoso siamo chiamati in causa tutti e ogni tipo di intelligence che la democrazia può produrre. È troppo facile dire: dov’è lo Stato? Dov’è la giustizia? Con altrettanta facilità si potrebbe chiedere: dov’eri tu quando le cosche si organizzavano e bussavano alla tua porta? Dov’eri tu quando tuo figlio entrava in questa o quell’altra organizzazione di criminali? Perché hai vissuto nell’omertà e convivi tuttora con e nell’omertà facendo finta di non vedere, di non sentire, di non sapere?

In democrazia nessuno può sfuggire all’appello che la legalità deve essere difesa da ognuno di noi e non solo dalle forze dell’ordine; si tratta di difendere il bene comune[10] a cui tutti vogliamo partecipare e a cui tutti, in democrazia, abbiamo il diritto di partecipare; si tratta, allora, di difendere i diritti di ognuno; solo in questo modo possiamo difendere anche i nostri stessi diritti; si tratta, allo stesso tempo, di difendere i principi di giustizia e di libertà sui quali si basa ogni forma di convivenza democratica e il futuro dell’esistenza nostra e quella delle generazioni future. A questi diritti si lega il dovere di impegnarsi per la legalità e di coltivare il senso della legalità.

Vivere la legalità è un principio, ma anche un impegno. Dove questo principio e questo impegno vengono meno, avanza l’indifferenza; questa si traduce in omertà, in ultima analisi in accettazione; l’accettazione non è che convivenza con la criminalità. Dove regnano l’indifferenza e l’omertà, la criminalità può organizzarsi e fiorire, può espandersi, rafforzarsi e trasformarsi, appunto, in quella fonte distruttiva che scardina dalle fondamenta i principi della convivenza civile e della democrazia. Qui sono chiamate in causa le scuole di ogni ordine e grado e nuovamente la fatica quotidiana, incessante e logorante degli insegnanti. È chiamata in causa l’educazione, tutta l’educazione. L’obiettivo inaggirabile, fondamentale, è il principio della giustizia non come libero arbitrio, ma nella legalità e nelle regole della democrazia. Ma ciò presuppone un lavoro pedagogico e, in ultima analisi, un lavoro didattico differenziato che metta in gioco strategie in corrispondenza della gravità del problema che non è più un problema fenomenico, ma un problema strutturale della nostra società.

Ciò è tanto più importante quanto più si è sottovalutato e si continua a sottovalutare il potenziale di rischio che le criminalità organizzate costituiscono per la nostra fragile democrazia. Ciò è tanto più importante quanto più vengono meno le domande su che cosa si deve fare a livello politico, economico e culturale in generale e su cosa spetta fare a noi tutti, adesso e subito, a noi cittadini di uno stato democraticamente debole se non lo vogliamo perdere del tutto, ma mantenerlo e rafforzarlo. Davanti a noi non c’è un fenomeno. Davanti a noi ci sono organizzazioni che lentamente, gradualmente e sempre più, si stanno impossessando della politica, dell’economia, delle istituzioni e dello Stato. Le organizzazioni criminali hanno messo le mani su tutto. Camorra, ‘ndrangheta, cosa nostra e sacra corona unita si sono insinuate nelle logge massoniche e nel sistema economico corrompendo il sistema politico. Queste organizzazioni criminali costituiscono una holding mondiale del crimine[11]. Si tratta di organizzazioni che sono riuscite sempre più ad adattarsi ai processi di modernizzazione, alle tecnologie più avanzate e a creare rapporti stabili con organizzazioni criminali straniere. Non si tratta più di fenomeni, ma di multinazionali della criminalità. Dinanzi a criminalità così organizzate, le strutture e le istituzioni hanno bisogno di risposte forti. Si tratta – come si diceva all’inizio di queste riflessioni - di riportare le stesse istituzioni su un nuovo piano di legalità o meglio: di riconquistare la legalità perduta. E in ciò noi tutti dovremmo essere consapevoli del fatto che il lavoro difficile, spesso ormai quasi impossibile della giustizia, non può fare e non deve fare a meno del contributo di ognuno di noi.

Nessuna democrazia può reggersi, svilupparsi e crescere realmente sulla violenza generata dall’illegalità e dalla criminalità. La democrazia implica, piuttosto, non solo un discorrere su regole e principi democratici, ma anche un impegnarsi per le regole e i principi ritenuti democratici. Accettare la democrazia significa difenderla e lavorare affinché essa raggiunga un grado sempre più elevato e più ampio di espressione e di dispiegamento così da abbracciare le singole istituzioni, anzi tutte le istituzioni; significa non solo partecipare a questo processo sempre più ampio e universale di democratizzazione, ma anche vivere la democrazia quotidianamente nelle istituzioni e fuori dalle istituzioni non solo a parole, ma come atteggiamento quotidiano di ogni singola persona.

D’altra parte, come potremmo altrimenti spiegare ai nostri figli, ai nostri studenti, all’opinione pubblica in generale, che la democrazia è meglio della dittatura, se la democrazia viene via via utilizzata per trasformarla tacitamente in dittatura?

Come spiegare ai nostri figli, ai nostri studenti e all’opinione pubblica, in generale, che la vita democratica deve orientarsi ai principi di giustizia, di uguaglianza e di libertà se socialmente si vive di ingiustizie, si coltivano le disuguaglianze e la libertà diventa libertà di saccheggiare e devastare le risorse pubbliche, di imporsi sul mercato con tutti i possibili mezzi leciti e illeciti e se regna la libertà di distruggere anche i principi della vita democratica e della convivenza civile?

Come spiegare ai nostri figli, ai nostri studenti, all’opinione pubblica, in generale, che è giusto orientarsi al principio della legalità, se socialmente regnano l’illegalità, il malaffare, la corruzione, la criminalità?

Fermo l’analisi a queste poche domande, ma non per dire che, data la poca democrazia o il fallimento della nostra fragile esperienza democratica, possiamo fare a meno di un tema così importante come quello qui oggetto di riflessione o di riflettere sulle dovute strategie educative e didattiche (anche in rinvio alle possibilità che può offrire una didattica dell’intelligence rivolta alla ricostituzione del potenziale democratico nella nostra società) per cercare non solo di salvare e salvaguardare gli ultimi resti della nostra democrazia, ma per tentare, a lungo raggio,di realizzare una democrazia sempre più ampia e sempre più piena. Mi fermo qui, perché sono convinto che socialmente conviene difendere questi pochi resti di democrazia che ancora abbiamo nel nostro paese. Anzi ritengo che non solo è di rilevanza esistenziale, per noi tutti e le generazioni future, difendere questi ultimi resti di democrazia, ma che il nostro compito primario è e sarà quello di difenderli e possibilmente ampliarli e consolidarli. E la scuola rappresenta uno dei punti di forza per questa difesa della democrazia. Ma non dimentichiamo che anche la scuola è all’interno e non all’esterno dei processi sociali, anzi la scuola è e sarà il prodotto della società che a monte la sostiene e la finanzia. E una società non democratica esprimerà una scuola non-democratica, viceversa: una società democratica esprimerà una scuola democratica. Dobbiamo difendere questi ultimi resti di democrazia perché è mia convinzione (e credo e spero non solo mia convinzione) che è più facile passare da poca democrazia a più democrazia che non dalla non-democrazia o dalla dittatura alla democrazia. E non sarebbe poi un obiettivo piccolo evitare che ai nostri figli e ai nostri studenti venga risparmiata l’esperienza di dover passare dalla dittatura alla democrazia come è successo, purtroppo, ai padri della nostra costituzione.

 

Riflessioni didattiche

In quanto sopra evidenziato si evince che il problema si estende su più livelli: politico, sociale, economico, culturale e, in ultima analisi, come si diceva sopra, pedagogico. Il problema è, ovviamente, anche didattico. Come impostare, cioè, il lavoro quotidiano del come educare alla democrazia? Con quali contenuti strutturare l’insegnamento e l’apprendimento orientati al principio della legalità? Ciò che si richiede, in un tema così complesso, sono strategie didattiche capaci di affrontare questa complessità che si dispiegherà necessariamente sui piani menzionati che formano allo stesso tempo piani didattici. Le strategie didattiche dovranno, appunto, affrontare i piani della politica, dell’economia, del sociale e del culturale. Solo in questa differenziazione e nell’intreccio dei piani è possibile pensare in termini di una strategia didattica complessiva e organica che possa rispondere efficacemente alle penetrazioni devastanti delle organizzazioni criminali nelle strutture della società.

Può l’intelligence essere di aiuto in questa ricerca di ricomposizione delle condizioni di possibilità di una società democratica sui quattro piani della politica, dell’economia, del sociale e della cultura? Possono le strategie dell’intelligence penetrare nei segreti del malaffare e del malcostume, della criminalità organizzata e della politica criminale, ma anche nella politica della corruzione e nell’economia del malaffare in generale e produrre dall’interno condizioni di possibilità di aperture democratiche sempre più ampie, sempre più diffuse? Può l’intelligence con le sue strategie aiutare a formare nei giovani una coscienza civile contro la criminalità organizzata e la perdita della democrazia nelle istituzioni? L’intelligence può certamente contribuire al lavoro di apertura a spazi di più democrazia. Ciò significherebbe, d’altronde, prendere sul serio il lavoro di difesa delle nostre istituzioni e non solo. Dico non solo, perché se il senso dell’intelligence è quello di difendere lo Stato e le sue istituzioni allora diventa un obbligo difendere la democrazia. Difendendo la democrazia e la cultura democratica, si difende, infatti, lo Stato. Per quanto debole la nostra democrazia, essa era e mi auguro rimanga l’idea fondante del nostro Stato. Parliamo di questo Stato democratico come espressione di quella resistenza che l’Italia non più fascista ha voluto costituire e che è compito di noi cittadini salvaguardare e difendere. In questo senso, per l’intelligence difendere lo Stato non è solo questione di “attività difensive” (di “contro-intelligence” o “contro-informazione”) e di “attività offensive”[12], ecc.; non si tratterebbe solo di combattere il “nemico” esterno, ma anche e soprattutto il “nemico” interno; in ultima analisi si tratterebbe del come salvaguardare i principi e le regole, gli ideali e le norme di uno Stato democratico.

Dal momento che combattere le organizzazioni criminali e porsi su un piano di prevenzione rispetto alla criminalità significa raccogliere il maggior numero possibile di informazioni e sviluppare strategie anche e soprattutto dall’interno, l’intelligence potrebbe sul piano delle strategie didattiche assumere un ruolo certamente importante nel recupero e in difesa della democrazia[13]. Ovviamente non possiamo pensare ad una didattica dell’occulto o ad una didattica segreta. Una strategia invisibile sul piano didattico non è democraticamente produttiva. La democrazia, infatti, o la vivi o sei fuori di essa. L’intelligence potrebbe avere, però, un ruolo decisivo soprattutto riguardo allo svisceramento delle ramificazioni nazionali ed internazionali che strutturano le organizzazioni criminali oggi e legano razionalmente ed internazionalmente criminalità e politica, criminalità ed economia, politica e corruzione e richiamare così l’attenzione sul futuro delle nostre istituzioni e sui rischi della nostra democrazia. Il nemico della democrazia non è necessariamente l’aggressione antidemocratica dall’esterno, piuttosto l’assalto quasi invisibile ma graduale, organico e costante di forze antidemocratiche interne allo stesso sistema democratico come il radicarsi e diffondersi sistematico di quell’intreccio di criminalità politica, criminalità ed economia che avvolge le istituzioni e finanche lo Stato. L’intelligence potrebbe e dovrebbe mettere a disposizione informazioni sull’intreccio di questi rapporti. Per prevenire è indispensabile la qualità e la quantità delle informazioni. Solo sulla base di queste informazioni possono essere sviluppate le strategie didattiche e ripensati i rispettivi metodi ed elaborate le specifiche forme di apprendimento ed insegnamento. Solo sulla base di informazioni valide e assicurate ha senso organizzare percorsi didattici che contrastino, combattano e sconfiggano queste forme strutturali nazionali ed internazionali di corruzione, malaffare, criminalità organizzata e che avviino a processi sempre più ampi di recupero e consolidamento della democrazia.

 

Etica e democrazia – Un rapporto da recuperare e il contributo dell’intelligence

La democrazia, come si diceva sopra, non può essere delegata. C’è se e fino a quando può essere vissuta. Ma essa non vive e si difende da sé. Una intelligence attuale riferita alla nostra democrazia richiede non solo la difesa dello Stato (in generale), ma anche la difesa di quell’essenza che fa di uno Stato uno Stato davvero democratico. Il nostro Stato democratico non è, infatti, espressione del caso, ma dell’attuazione di determinati principi o postulati. Fanno parte di questi principi o postulati le libertà civili, politiche e sociali articolate dopo il fascismo e che esprimono non solo una determinata concezione di vita sociale, ma anche una determinata antropologia, ossia un modo specifico di intendere l’uomo e di assegnargli a priori dei valori che lo costituiscono come persona nella sua essenza o dignità.  Sono valori inviolabili, tanto che la vita democratica non è costituita solo dal corrispondere ai diritti-doveri sanciti dalla costituzione, ma anche dall’avere, da cittadino, la facoltà di orientarsi a scelte personali e poter esprimere la propria personalità e a partecipare direttamente o indirettamente e, quindi, ad intervenire nel pubblico dibattito e contribuire alle scelte politiche e anche ad una loro eventuale modifica. Ma sono valori inviolabili anche per il fatto che pongono dei limiti anche al potere dello Stato. Non solo lo Stato non può valicare questi limiti senza mettere a rischio la sua legittimazione, ma è anche impegnato nel far rispettare e promuovere questi valori assegnati a priori alla persona. Ma dietro le libertà civili c’è un altro a priori assegnato di principio o per natura all’uomo: l’idea dell’uguaglianza.

Il nostro Stato democratico parte dal presupposto che tutti gli uomini sono per natura uguali come recita la tradizione illuministica occidentale. Questo postulato non si basa sull’uguaglianza reale o empirica (nel qual caso esso sarebbe superfluo) tra gli uomini, ma sulla loro disuguaglianza di fatto. Partendo, però, proprio da questa disuguaglianza empirica o di fatto, ha senso e assume rilevanza prioritaria il postulato o principio dell’uguaglianza (per natura) e l’esigenza che poniamo nella società democratica, in base alla validità che riconosciamo a priori di questo principio, che ognuno possa e debba realizzare se stesso (diritto di uguaglianza e diritto di libertà). Proprio in ragione di queste disuguaglianze empiriche, l’uomo ha bisogno di istituzioni, regole e principi; ha bisogno dello Stato e di un’etica minima accettata e accettabile, in via di principio, da tutti con la quale poter corrispondere ai bisogni di ognuno. Lo Stato democratico, come istituzione sociale e prodotto storico della cultura umana, è il tentativo di dare una risposta reale a questi principi a priori che formano la sua base etica minima irrinunciabile, espressa nella formula natural law. Non è pensabile un’idea di Stato senza questo consenso minimo. Per cui, non ogni Stato è democratico, né uno Stato è democratico solo perché si autodefinisce tale. Ma è democratico quello Stato che accetta, rispetta e avvia processi per la realizzazione di questi principi ritenuti validi a priori e che non rinuncia ad appellarsi ad un determinato concetto di uomo. Non è pensabile uno Stato democratico senza un rinvio esplicito ad una assiomatica antropologica, quant’anche minima, che assegni  all’uomo, a priori, libertà e uguaglianza come diritto di natura.  Sulla base dei principi di libertà e uguaglianza si spiega, infatti, perché lo Stato democratico reclami e si orienti al fine secondo cui diventa indispensabile la partecipazione di tutti i suoi cittadini alla gestione della vita democratica. Pertanto, l’etica democratica non è interessata solo ed esclusivamente al consolidamento dell’ordine attuale e statuale della società, ma prepara le coscienze, partendo dai bisogni e dalle aspirazione di esse, all’ordine futuro della gestione e cogestione sociale. Questi principi e diritti assegnati a priori, e che formano un’antropologia minima consensuale, costituiscono il fondamento di ogni democrazia, in quanto non solo guidano, limitano e regolano i rapporti tra uomo e uomo e tra uomo e Stato, ma fissano anche le regole entro le quali la democrazia trova le condizioni di possibilità di una sua articolazione e di ogni sua futura espressione. A ben vedere, i principi di uguaglianza e libertà sono assiomi regolativi che precedono sia le decisioni politiche dello Stato che il comportamento del singolo cittadino. Il consenso minimo indispensabile a cui si fa qui riferimento non è vuoto e, quindi, solo formale, rende piuttosto ben visibile il limite che né al singolo né allo Stato è permesso valicare, se parliamo di Stato democratico e di cittadino democratico. In rinvio a questo consenso minimo, o concezione antropologica, possiamo distinguere cosa democraticamente è giusto e cosa non è democraticamente giusto. In democrazia, diversamente che nella dittatura, non vale la massima nella politica lo scopo legittima i mezzi, ma la massima: nella politica lo scopo non legittima i mezzi. Non si può venir meno a questa massima, in quanto la politica non potrà essere determinata solo ed esclusivamente dal suo successo (più successo delle dittature, ove i consensi sono già obbligatoriamente decisi e definiti?), ma anche e soprattutto dal prezzo che per essa bisogna pagare[14].

Ma non c’è dubbio che proprio dal fatto che la democrazia e la sua etica non si intendono da sé, la possibilità di una politica democratica è da legare a determinati sforzi e conquiste sociali. La società democratica esige un’educazione democratica e questa presume una cultura democratica. La democrazia non significa necessariamente più Stato, piuttosto una politica democratica che funzioni sempre meglio. Quest’ultima significa: meno Stato e più autonomia del singolo. Ma, per funzionare sempre meglio, la democrazia non può essere solo delegata, esige invece coinvolgimento e responsabilità possibilmente di tutti i cittadini. Ciò è tanto più necessario quanto più si parte dal presupposto che la democrazia, diversamente dalle forme totalitarie e dittatoriali, aspira ad una partecipazione sempre maggiore non solo in tutti gli ambiti istituzionali e non solo istituzionali, ma anche nell’ambito della legittimazione della propria essenza e dei propri principi fondamentali. Una democrazia è tanto più democratica quanto più riesce, dal suo interno, ad ampliare gli spazi di discussione e critica; quanto più il discorso è fonte di comunicazione pubblica e di ricerca consensuale globale sui principi e sulle decisioni necessarie in ogni democrazia. Non c’è democrazia che possa affermarsi e radicarsi nella realtà sociale se essa non è espressione del tentativo di avviare  processi che portino ad una diminuzione crescente dell’alienazione socialmente prodotta; se essa non persegue, cioè, come uno dei suoi obiettivi prioritari, l’indebolimento delle strutture di dominio sociali che producono questa alienazione a tutto svantaggio dell’aumento dell’autonomia e della libertà dei singoli cittadini[15].

La politica democratica non è affatto neutrale ed ha bisogno di tutti gli strumenti e gli sforzi democratici per creare i presupposti di una esperienza di democrazia realmente vissuta. Ciò fa presumere l’importanza di recuperare il rapporto indispensabile che deve legare etica e democrazia. Senza questo legame profondo tra un’etica orientata ai principi di libertà, uguaglianza e giustizia sociale, da un lato, e autodeterminazione, autonomia e partecipazione del singolo, dall’altro, non c’è democrazia che possa costituirsi, crescere ed ampliarsi. Tutte le intelligence[16], dalla difesa dello Stato alla difesa dei suoi principi, dalla difesa delle sue istituzioni alla difesa della cultura democratica e alla istituzionalizzazione di una scuola democratica, sono necessarie e premessa indispensabile in termini di realizzazione di democrazia e cultura democratica[17]. Ciò è tanto più necessario quanto più le istituzioni sono prese d’assalto da poteri corrotti e criminali; quanto più lo Stato legale si trova nella situazione di dover lottare contro poteri illegali; quanto più l’“economia di mercato” deve fare i conti con una economia criminale che non conosce più frontiere, ma si estende mondialmente mettendo a rischio la sopravvivenza delle funzioni democratiche e degli Stati democratici.

La democrazia, come si può evincere da quanto sopra evidenziato, non è solo un insieme di procedure e regole formali. Non c’è, ovviamente, Stato democratico che possa fare a meno di procedure e regole formali a garanzia della sua democraticità. Non c’è, altresì, Stato democratico che possa fare a meno di istituzioni. Ma regole, procedure e istituzioni non garantiscono ancora la democraticità di uno Stato se vengono a mancare i principi che sono proprio alla base di procedure, regole e istituzioni. Il grado di democraticità di uno Stato dipenderà dallo spirito di questi principi che dovranno alimentare procedure, regole, istituzioni. Ove questo spirito verrà a mancare, verrà a mancare la base su cui dovrebbe reggersi la democrazia. Si può notare allora: alla forma dovrà pur corrispondere una sostanza. E la sostanza è data dai principi a monte della forma. Senza i principi di libertà e uguaglianza non hanno senso procedure, regole, istituzioni. Come si può essere liberi se si è privi dei mezzi materiali e intellettuali, della possibilità di partecipazione ai processi decisionali e di autoesplicazione? In cosa la democrazia sarebbe diversa dalle oligarchie e dalle dittature, se vengono a mancare le libertà civili, politiche e sociali?[18]. Se non vengono riconosciuti ad ognuno, a priori o per natura, i diritti di dignità, di uguaglianza, di libertà e di autorealizzazione? Oltre alla forma abbiamo bisogno allora della sostanza e per il raggiungimento di questa sostanza la via da percorrere è lunga e non senza ostacoli come documenta il disfacimento della democrazia italiana. Scriveva Norberto Bobbio, nel 1958, su “Risorgimento”: “Il cammino della democrazia non è un cammino facile. Per questo bisogna essere continuamente vigilanti, non rassegnarci al peggio, ma neppure abbandonarsi ad una tranquilla fiducia nelle sorti fatalmente progressive dell’umanità. Oggi non crediamo, come credevano i liberali, i democratici, i socialisti al principio del secolo, che la democrazia sia un cammino fatale. Io appartengo alla generazione che ha appreso dalla Resistenza europea qual somma di sofferenza sia stata necessaria per restituire l’Europa alla vita civile. La differenza tra la mia generazione e quella dei nostri padri è che loro erano democratici ottimisti. Noi siamo, dobbiamo essere, democratici sempre in allarme”. Dobbiamo essere, appunto, in allarme - come dice Bobbio – e aver cura della democrazia, in quanto essa non è un dono di natura né un destino assegnato all’uomo o intrinseco alla storia. Tutt’altro: la democrazia è una fatica storica, non solo una fatica per realizzarla, ma anche una fatica per mantenerla, come scrive Gustavo Zagrebelsky: “Per la democrazia, che è il regime di tutti, occorre una ‘virtù’ particolare, fatta di serietà e sobrietà negli stili di vita, di stima reciproca, di spirito d’uguaglianza, di rifiuto del privilegio e rispetto del diritto, di cura per le cose pubbliche che, essendo di tutti, non possono essere preda di nessuno in particolare. Potrei continuare e sarebbe un elenco che ci farebbe venire i brividi, per quanto lontani siamo dall’aver consolidato quella molla ideale. L’atteggiamento etico che è stato diffuso dappertutto e con tutti i mezzi, in questi decenni, è l’esatto contrario di tutto ciò. E ci stupiamo se avvertiamo la democrazia scricchiolare?”[19].

 

L’etica del discorso - Fondamento della democrazia e dello Stato di diritto

 

Da quanto sopra messo in evidenza e da come si può evincere dai quadri sinottici conclusivi di seguito riportati, per una didattica dell’intelligence volta alla prevenzione della criminalità e alla difesa della democrazia, non possiamo fare a meno di un quadro normativo organico e differenziato. Ma non si tratta di un quadro normativo qualsiasi o in generale. La democrazia richiede, piuttosto, l’osservanza di alcuni principi. Non l’osservanza del principio “fa quello che vuoi”, in base alla tua coscienza (egoistica) singola (autarchica) o soggettiva; agisci, invece, come membro responsabile dell’intersoggettività sociale; come membro di una comunità della comunicazione o interazione per il bene di tutti; come partecipante alla comunità discorsiva, espressione dell’interesse generale e non solo del singolo.

Si può notare che l’etica che esprime la democrazia non è un elenco di valori statici e assolutizzabili o sovrastorici; essa piuttosto è l’osservanza, in senso pragmatico, di alcune regole o di una Grundnorm in cui si riconosce, a tutti i membri della comunità comunicativa o discorsiva, uguali diritti. Uguali diritti è qui da intendere non come un imperativo categorico la cui valenza si dà nel ‘regno dei fini’[20], ma come simmetria dei partecipanti alla comunicazione e alla discorsività la cui valenza riposa, anzitutto, nella storicità in cui la simmetria si attua realmente. Se prendiamo sul serio l’etica che è alla base di un’autentica democrazia, nella discorsività che si svolge sul piano paritetico e simmetrico, noi tutti ci giochiamo la validità delle nostre pretese e delle nostre argomentazioni: ci giochiamo, non da ultimo, il senso della verità. La democrazia non presuppone solo il rispetto reciproco tra i partner del discorso (in quanto partner paritetici), ma anche la corresponsabilità reciproca che i partecipanti (tutti) al discorso (pubblico) devono assumersi nell’interesse di tutti e non di una parte o di singoli. Nel senso di Karl-Otto Apel: “Nel pensiero in quanto argomentare i partner del discorso si suppongono sempre già equiparati e – rispetto all’articolazione e alla soluzione di problemi – quasi ugualmente corresponsabili in quanto membri di una comunità discorsiva ideale illimitata[21]. In altri termini, chiunque entra in un’argomentazione (e quale democrazia può ritenersi tale se non è fondata sull’argomentabilità e la condivisione di tale argomentabilità?), fa necessariamente appello ad alcune norme fondamentali (anche se pragmatiche) se vuole cercare di stabilire quale opinione sia quella giusta o vera o quale pretesa di parte sia moralmente legittima. A ben riflettere: non vi è discorso pratico disgiunto da tali regole normative.

L’etica democratica vive del presupposto che tutte le persone sono interlocutori validi che possono partecipare attraverso il dialogo alla ricerca della verità e alla migliore analisi e alla soluzione più adeguata di tutti i problemi (pubblici) di volta in volta accettati e accettabili nelle condizioni più prossime alla simmetria. Ciò, però, non significa che le decisioni moralmente corrette saranno quelle prese dalla maggioranza tout court (questa strategia non eliminerebbe il rischio dell’affermarsi o del consolidarsi di interessi comunque particolari), piuttosto quelle in cui tutti i partecipanti sono considerati equiparati nei diritti e nella corresponsabilità reciproca.

Da ciò si deduce che la democrazia è un concetto ideale e allo stesso tempo un concetto storico. Come concetto storico, esso è sempre legato a determinati rapporti interumani. Le sue regole, i suoi principi non sono e non saranno assolutizzabili, ma nemmeno potranno essere ridotti a pura contingenza, senza svuotarsi del loro carattere emancipativo. Dire democrazia non significa, allora, status quo, quale sempre esso sia; piuttosto processo sempre nuovamente proiettato nel futuro. In democrazia, si tratta sempre di una strategia a lungo raggio. Una strategia il cui scopo è, non da ultimo, la trasformazione delle condizioni ostative alla stessa discorsività per una democrazia realmente sperimentabile. L’imperativo di una tale impostazione è che quando si dialoga su norme (ciò è costitutivo per ogni democrazia e anche per la difesa della democrazia e la prevenzione della criminalità), bisogna tener conto degli interessi di tutti; che non ogni dialogo ci permette di scoprire se una norma è corretta, bensì solo quel dialogo che si attiene ad alcune determinate regole che gli permettono di autorealizzarsi in condizioni di simmetria tra gli interlocutori e in una discorsività libera da condizionamenti, coazioni e domini.

In una democrazia sostanziale, chiunque è capace di parlare e di agire può e deve poter partecipare ai discorsi (pubblici); chiunque può e deve poter introdurre nel discorso (pubblico) le sue considerazioni; chiunque deve avere la possibilità di esprimere (pubblicamente) la sua posizione, i suoi bisogni e i suoi desideri[22]. In altri termini, in una democrazia non solo non è lecito impedire a qualcuno di far valere i propri diritti mediante coazione interna o esterna al discorso[23], ma in essa è sempre anche implicita un’etica del discorso. Non un’etica qualsiasi o in generale; non un’etica riducibile a razionalità strategica. Un’etica, invece, che è razionalità dialogica o discorsiva e che non nega, quindi, a nessuno la possibilità di decidere su pretese di validità che pervengono a problemi di ogni tipo solo per via argomentativa, per la bontà degli argomenti e non per persuasione retorica o negoziazioni ove è in campo, addirittura, l’uso di “offerte” o “minacce”. Solo la comunicazione (razionale) può aprire alla possibilità di consensi argomentativi e non coatti. Solo la comunicazione (razionale) permette l’uguaglianza di principio che è costitutiva per le relazioni democratiche, in quanto in esse si oggettiva la reciprocità del riconoscimento dell’altro e ognuno può autodeterminarsi nella forma dell’assenso condiviso o del dissenso argomentato. L’etica qui menzionata è, in verità, implicita al discorso (ad ogni discorso serio)[24]. Ma essa è sorretta da un doppio a priori: dall’a priori della comunità discorsiva reale e dall’a priori della comunità discorsiva ideale, il cui scopo è la presa di coscienza di una necessaria co-responsabilità non solo sul piano locale, ma anche sul piano globale e universale[25]. Si va, infatti, dagli effetti devastanti dei potenziali bellici di armi di distruzione di massa alle azioni terroristiche, da irresponsabilità individuali a irresponsabilità collettive spesso non meno rischiose per la tenuta della sopravvivenza sul nostro pianeta. Si pensi, per esempio, ai grandi rischi per l’eco-sistema dovuti ad una sfrenata e sregolata imposizione della tecnica industriale.

Alla luce di queste sfide globali, diventa obbligatoria, per la sopravvivenza dello Stato di diritto e della democrazia in generale, una doppia etica. Una microetica relativamente ai problemi locali (nazionali) e una macroetica che tenga conto della situazione globale o mondiale. Il che da un punto di vista didattico comporta una strategia ineludibile legata ai presupposti dell’etica del discorso al cui centro sta l’intesa condivisibile, ragionata e responsabile per la soluzione (su basi discorsive e dell’argomentazione) dei problemi locali, universali e che interessano tutti. La strategia didattica discorsiva dovrà mettere in evidenza le violenze strutturali, ma anche linguistiche e normative che costituiscono le fonti generative di coazione, coercizione, violenza e dominio. Anche il linguaggio, se pensiamo ai codici di massonerie, camorra, ‘ndrangheta, cosa nostra, sacra corona unita, può diventare uno strumento di potere, mistificazione e distorsione della verità, per cui occorre sviluppare i corrispettivi antidoti, affinché la forza e la prepotenza, la corruzione e la criminalità possano essere sostituite dal dialogo e dalla responsabilità reciproca.


 

 

Una didattica dell’intelligence orientata alla prevenzione della criminalità e alla difesa della democrazia ha bisogno di un quadro normativo generale ampio e differenziato a cui orientarsi entro cui collocare le strategie educative. Le seguenti tre sinossi raccolgono le categorie centrali di questo quadro normativo.

Prima sinossi

Partendo dall’obiettivo generale di prevenire e neutralizzare la criminalità organizzata in tutte le sue manifestazioni per la sicurezza dei cittadini e la difesa dei diritti e delle garanzie contenuti nella Costituzione e nelle Leggi,  si delineano i seguenti obiettivi ed interventi specifici.

 

Obiettivi ed interventi specifici di una didattica dell’intelligence per la prevenzione della criminalità organizzata e la difesa della democrazia:

·         Consapevolezza delle dimensioni del problema

·         Responsabilizzazione e corresponsabilità

·         Analisi legislativa e normativa in materia di prevenzione e sicurezza

·         Ricerca e raccolta di informazioni documentabili

·         Utilizzo della tecnologia e dei sistemi di informazione

·         Organizzazione e conduzione di indagini e ricerche

·         Ampliamento dell’informazione sul fenomeno della criminalità organizzata o fenomeni similari

·         Elaborazione di programmi e azioni per garantire la sicurezza pubblica

·         Coordinazione interistituzionale che includa i cittadini, la società civile e le sue organizzazioni più significative

·         Coordinazione/cooperazione internazionale e scambio di informazioni

·         Elaborazione di misure contro la penetrazione della delinquenza negli organi preposti alla sicurezza

·         Salvaguardia dei principi e delle regole di uno Stato democratico

·         Ricostituzione del potenziale democratico nella nostra società

·         Garantire la piena validità dello Stato di diritto

Prima di passare alla seconda sinossi, si delineano alcuni punti centrali per una messa a fuoco diagnostica delle diverse fenomenologie criminali di tipo organizzato. Attraverso tale messa a fuoco, volta a valutare i fattori economici e sociali nonché l’impatto di tipo psicologico del crimine organizzato, sarà possibile definire strategie destinate a prevenirlo e combatterlo.

 

Forme e strutture del crimine organizzato

Organizzazioni criminali

Mafie tradizionali

Mafie nuove

Organizzazioni politiche estremiste

Terrorismo

 Delinquenza informatica, ecc.

 

Rapporti/Intrecci

 Internazionali (Intercontinentali) tra le Mafie

 

Aspetti storici, sociali, psicologici

Fattori politici, culturali, economici

 

Seconda sinossi

 

 

Idea di democrazia

(demos: popolo, kratIA: governo)

Partecipazione, Autodeterminazione

 

Lo Stato democratico

come istituzione sociale e prodotto storico

 

Democrazia formale e sostanziale

 

Rapporto Etica/Diritto/Politica

 

Microetica e Macroetica

 

I diversi tipi di Costituzione

 

La Costituzione Italiana

 

Cornice normativa e legislativa

 

Lo status attuale della nostra democrazia

 

Vulnerabilità della nostra democrazia

“Cittadinanza e Costituzione”

Educazione libera e aperta a tutti (artt. 33-34)

Formazione di Personalità libere e responsabili

Rispetto del Bene Comune

Partecipazione al Bene Comune

Agire ispirato alla ricerca dell’interesse generale

Collaborazione/Relazione/Alterità

Correttezza/Onestà/Rigore etico e civile

Assenso condiviso/Dissenso argomentato

Interazione/Intersoggettività sociale/Simmetria/Corresponsabilità

Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo, della Democrazia Pluralista,

della Giustizia, della Solidarietà e della Preminenza del Diritto

 

Educazione alla legalità

Promozione di una Cultura di Valori etici e civili condivisi

Condizione imprescindibile

Intesa etica comune (linguaggio e comunicazione)

 

 

Terza sinossi

 

1. La nozione di Stato (di diritto)

 

Concezione classica

Cultura greca e romana

Ideale socio-politico

Etica del nomos

Platone (l’eticità nello Stato)

Filosofia═Politica

Nomoi ed ethos

Phronesis e Filosofia pratica

Prudentia

 

 

CONCEZIONE MEDIEVALE

Dante, Tommaso d’Aquino, Ockham

 

Concezione moderna

Ideologia borghese

Teoria dell’homo faber

Etica e Stato di diritto

Montaigne, More, Campanella, Bruno, Machiavelli, Grozio,

Hobbes, Locke, Spinoza, Rousseau, Kant, Hegel

Giusnaturalismo, Realismo, Positivismo, Marxismo, Socialismo

SECOLI XX E XXI

Totalitarismo

Liberalismo e Democratismo

Weber, Elias, Bauman, Dewey,

Popper, Habermas, Apel, Hayek, Bobbio, Kelsen, Rawls

Multiculturalismo e Globalizzazione

Etica civica/Educazione civica

Giustizia, Pace, Solidarietà,Tolleranza

 

2. Etica e democrazia

 Modelli etici e forme di democrazia
 

 

 

3. Responsabilità ed educazione alla cittadinanza

Agire corretto e responsabile

Ideale etico comunitario

Ricerca del bene comune

Ermeneutica interculturale

 

 

4. Corresponsabilità, collaborazione e co-partecipazione

Intersoggettività/Universalità

Parità dei diritti/Uguaglianza di opportunità

Consenso/dissenso democratici

Negoziazione/Cooperazione sociale/Solidarismo

Partecipazione, gestione e cogestione sociale

Democrazia partecipativa

Pensiero critico, aperto, flessibile, inclusivo

Imparzialità e trasparenza

Cittadinanza democratica come impegno partecipativo

 

5. Assiomatica antropologica

Assiomi regolativi

Status sociale e dignità ontologica dell’uomo

Uguaglianza, Autonomia, Autorealizzazione

Emancipazione individuale e sociale

Interculturalità e multiculturalismo

Identità e Relazione

Rapporto aperto e solidale con l’altro

Integrazione fra singolo e comunità

 

 

6. Cultura della legalità

Educazione etico-politica

Rifiuto della criminalità e della corruzione

Rispetto delle leggi e delle norme

Rispetto dei diritti umani

Maggiore responsabilità pubblica

Educazione alla responsabilità civica

Consapevolezza critica e autoriflessione

Promozione di consenso intorno ai principi etici basilari

 


 

*Contributo di prossima pubblicazione in L’intelligence e le scienze della formazione. Un primo approccio per un’educazione alla democrazia, a cura di Mario Caligiuri, pref. di V. Burza, introd. di G. Spadafora.

[1] In base al Rapporto Sos Impresa (2007), sono ventimila i “dipendenti” di cosa nostra, ‘ndrangheta, camorra e sacra corona unita. Per quel che riguarda l’organizzazione affaristica di cosa nostra, “l’archivio segreto” di Salvatore e Sandro Lo Piccolo offre dati molto chiari: gli affari vanno dalle sale Bingo nel nord Italia ed in Sicilia alle sorgenti d’acqua nell’isola ed in Calabria, al traffico di cocaina con il sud America gestito con la ‘ndrangheta. Non mancano i nomi di tutti gli “uomini d’onore”, tutti gli appalti pubblici e privati, dai lavori all’aeroporto di Palermo a quelli degli ospedali, delle caserme, della metanizzazione, della metropolitana, dei lavori al tribunale; la mappa del pizzo: centinaia di imprenditori, commercianti, artigiani, parrucchieri, pescivendoli che pagano con cadenza mensile o annuale.

[2] K. G. Fischer, Einführung in die Politische Bildung, Metzler, Stuttgart, 3a ed. 1973.  Versione italiana (di M. Borrelli con introduzione di L. Corradini): L’Educazione Politica nella Germania Federale, Le Monnier, Firenze, 1979.

[3]Cfr.  N. Gratteri, A. Nicaso, M. Borrelli, Il grande ingannoI falsi valori della ‘ndrangheta, Pellegrini, Cosenza, 2008; A. Nicaso, Senza Onore – Antologia di testi letterari sulla ‘ndrangheta, Prefazione di M. Borrelli, Pellegrini, Cosenza, 2007.

[4] Piero Grasso, procuratore nazionale antimafia, nell’audizione del 7 febbraio 2007 ha detto:” In certi paesi della Calabria è lo Stato che deve cercare di infiltrarsi” a sottolineare che molte aree del Sud sono sotto il totale controllo delle organizzazioni criminali. (Relazione finale della Commissione parlamentare antimafia del 19 febbraio 2008).

[5] Enzo Macrì , magistrato della Direzione nazionale antimafia, nella sua audizione ha detto, in riferimento alle cosche: “sono degli interlocutori istituzionali del potere, quasi necessari, imprescindibili: se è così, possono essere irrogate anche le condanne più pesanti, ma se poi a ogni consultazione elettorale sono regolarmente sentiti per avere il loro appoggio, se l’offerta di beni e soprattutto di servizi che loro sono in grado di prestare è ormai monopolistica perché hanno eliminato la concorrenza…allora diventano interlocutori, attori e protagonisti necessari e ineliminabili. Questo consente la loro sopravvivenza in eterno” (Relazione finale della Commissione parlamentare antimafia del 19 febbraio 2008).

[6] Per avere un’idea dell’impressionante condizionamento mafioso sul tessuto economico italiano, riporto solo alcuni dati relativi alla situazione degli imprenditori nel mezzogiorno assoggettati al racket delle estorsioni, all’usura, rapine, truffe, ecc. In base alle stime di “Sos Impresa”, i reati al giorno sono 1.300, 50 all’ora. Solo in Sicilia, in 50 mila pagano il pizzo (da 200 a 500 euro al mese i negozi; da 750 a 1000 euro quelli più eleganti); 5000 euro al mese i supermercati; 10.000 euro al mese i cantieri. Le imprese edili pagano a vano costruito; per gli appalti pubblici la quota va dal 2 al 3 per cento. A fronte di questa situazione non c’è un aumento, ma un calo delle denunce. Proprio in Sicilia, Calabria, Campania e Puglia le denunce non arrivano nemmeno alla metà di quelle del resto del paese. Si scrive nel Rapporto Sos Impresa (2007): “Il gotha della grande impresa italiana, soprattutto quella impegnata nei grandi lavori pubblici preferisce venire a patti con la mafia piuttosto che denunciare i ricatti. Il perché è chiaro: conviene così. Le imprese scendono a patti per il quieto vivere, quasi a sottoscrivere una polizza preventiva e corrono dal mafioso perché si vogliono mettere in regola”.

[7] Scrive Luciano Gallino in la Repubblica del 21/02/2009: “Si possono utilizzare diverse immagini allo scopo di definire il nocciolo del caso Italia. Tra le tante ho scelto l’immagine d’una società che con i suoi comportamenti collettivi si pone molto al di sotto della lex, la Legge con la maiuscola, quel sistema di rapporti tra individui e collettività che è considerato un elemento essenziale della condizione civile nell’età moderna ed ha il suo sommo nella Costituzione. Nella lunga scala che porta a una condizione civile la società italiana ha salito molti gradini, ma altri ne ha discesi. Al presente si colloca forse a uno dei livelli più bassi della sua storia, non foss’altro perché i rapporti che la legge dovrebbe regolare onde far procedere la società verso una ideale condizione civile diventano sempre più complessi”.

[8]Si legge ancora nel Rapporto in riferimento alla Calabria: “Le cosche calabresi sono pienamente consapevoli di poter disporre di risorse umane di alto profilo professionale nei campi giuridici ed economici in grado di orientare gli investimenti e di creare artifici per ostacolare l’accertamento della provenienza illecita dei capitali” e ancora: “L’operazione Anaconda dello scorso giugno, ha svelato addirittura l’esistenza di una ‘banca occulta’ gestita da una delle cosche più pericolose della città”. Si tratta della città di Cosenza.

[9] Un esempio di queste infiltrazioni strutturali è dato dalla ‘ndrangheta: “A  fronte della fragilità e permeabilità dell’apparato politico amministrativo…la ‘ndrangheta ha manifestato…una rapida capacità di adeguarsi alle trasformazioni economiche e sociali. Forte del suo atavico radicamento territoriale…ha acquistato una sempre maggiore capacità di condizionamento degli apparati amministrativi e politici calabresi. Esempi emblematici rimangono i casi del porto di Gioia Tauro e dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria, su cui le cosche hanno esteso nel tempo i loro tentacoli sovrastando in alcune fasi il tentativo di contrasto…In entrambi i casi risulta essersi perpetuato il perverso paradigma in base al quale le infiltrazioni della ‘ndrangheta negli appalti e subappalti per la realizzazione delle grandi infrastrutture…sono state favorite nel corso dei decenni dagli accordi stretti, e spesso raggiunti in via preventiva, tra le grandi imprese nazionali e i capi delle più importanti famiglie mafiose. Tali patti non si sarebbero potuti stringere in assenza di un sistema di connivenze con gli apparati politico-amministrativi”. (Relazione della Commissione parlamentare antimafia presieduta da Francesco Forgione, 2008).

[10] L’impegno per il bene comune è una questione legata al concetto di cittadinanza. Claudio De Luca scrive in proposito: “Nel quadro di un progetto educativo, si può intendere il termine «cittadinanza» non solo nel significato formale come insieme di regole, storicamente date, che garantiscono la giustizia e l’uguaglianza (cittadinanza giuridica e politica), ma anche nel senso sostanziale che comprende la realizzazione del bene comune riconoscendo insieme le identità e le differenze proprie della società pluralista (cittadinanza sociale)”. C. De Luca, Partecipazione, democrazia e legalità nella comunità scolastica, in E. Caterini, Profili di educazione alla cittadinanza attiva - Compendio didattico, Postfazione di G. Spadafora, Edizioni Scientifiche Calabresi, Rende 2008, p.49.

[11]Scrive giustamente Mario Caligiuri nel suo lavoro La formazione delle élite – Una Pedagogia per la democrazia, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2008, p. 135: “Ampliamente sottovalutato e legato al futuro della democrazia è lo scontro tra Stato legale e poteri illegali, dovuto all’ampliarsi dell’economia criminale, che ha assunto dimensioni planetarie, caratterizzando sempre di più le dinamiche economiche e sociali”; cfr. anche L. Napoleoni, Economia canaglia. Il lato oscuro del nuovo ordine mondiale, Il Saggiatore, Milano, 2008.

[12] Francesco Cossiga riassume nel modo seguente gli obiettivi dell’attività offensiva di “intelligence”: “La caratteristica delle attuali forme di ‘intelligence’ offensiva è che esse, in relazione alla globalità degli interessi dello Stato da difendere e da promuovere, sono diventate, per quanto attiene ai loro obiettivi, attività a carattere generale, che cioè assumono come interessi dello Stato da tutelare non soltanto la difesa militare o generale e la sicurezza pubblica in senso stretto, ma anche le attività di politica estera, gli interessi finanziari, economici, scientifici, industriali e l’identità culturale e nazionale stessa del paese. Con il che le notizie – ivi compresi documenti e materiali – da raccoglier dai servizi di informazione ‘in quanto altrimenti non ottenibili’ è di quel tipo di azione occulta che si chiama volgarmente spionaggio – attengono non solamente all’organizzazione militare o di sicurezza interna del Paese di interesse, ma anche e sempre più e anzi in misura preminente rispetto alla strategia militare e alla sicurezza interna, alla sua attività di politica interna, alla sua vita economica, alle sue attività scientifiche, industriali, di ricerca, nonché agli aspetti molteplici della vita della cosiddetta società del Paese di interesse. Per questo i servizi di informazione si sono evoluti nei Paesi moderni da servizi di interesse militare a servizi di interesse generale o strategici e per questo hanno acquisito sempre più la configurazione di : “Agenzie governative autonome” (in F. Cossiga, I servizi e le attività di informazione e di controinformazione – ABECEDARIO per i principianti, politici e militari, civili e gente comune. Compilato da Francesco Cossiga – dilettante, Presentazione di M. Caligiuri, Rubbettino, Soneria Mannelli, 2002, pp. 31-32).

[13] “L’Intelligence non deve essere l’attività illegale dello Stato. Al limite può essere una attività extra giuridica necessaria e legittimata dal concetto di Ragion di Stato, dal bene dello Stato o, meglio ancora, per lo Stato. Anzi, l’Intelligence è indispensabile a una democrazia perché le permette di non uscire dalla legalità. Infatti, in un sistema democratico, e a maggior ragione nella democrazia della governance in cui l’azione affianca, e sempre più spesso sostituisce, il governo, non è mai vero che il fine giustifica i mezzi. È vero al contrario che i mezzi, legittimando le azioni dei soggetti politici, giustificano il fine” (cfr. A. Ceci, Intelligence e democrazia. La relazione responsiva nella società della comunicazione, Rubbettino, Soneria Mannelli, 2007, p. 143).

[14] Cfr. K. G. Fischer, L’educazione politica nella Germania Federale, cit., p. 128.

[15]Scrive Kurt Gerhard Fischer: “L’educazione politica democratica si intende orientata verso l’autodeterminazione e la partecipazione: essa vuole mettere in grado gli uomini, anche nell’educazione degli adulti, di riconoscere la realtà sociale, di riconoscersi in essa per giudicarla e, se necessario, per cambiarla. Essa deve pensare che gli uomini sono capaci, nella situazione concreta, di scegliere e di usare i mezzi adeguati al cambiamento” (cfr. K.G. Fischer, L’educazione politica nella Germania Federale, cit., p. 74).

[16] “Eppure di intelligence e security il nostro Paese ha bisogno (come ne hanno bisogno gli altri Paesi democratici, perché è proprio un’esigenza della democrazia difendersi dai pericoli maggiori per la sicurezza dello Stato, dato che gli stati totalitari, in quanto tali, hanno un controllo appunto totalitario della vita politica, civile, culturale, economica, sociale e quotidiana della comunità)”, cfr. F. Cossiga, Prefazione, in R. D. Steele, Intelligence. Spie e segreti in un mondo aperto, Rubbettino, Soneria Mannelli, 2002, p. 7.

[17]Scrive Steele in Intelligence, cit., pp. 159-60: “L’Intelligence può avere un ruolo molto significativo nella ristrutturazione del nostro Governo nazionale e dei suoi rapporti con il settore privato; l’Intelligence può essere insegnante, mentore, guardia del corpo ed allenatore. L’Intelligence nazionale è una componente essenziale della nostra competenza, visione, senso della direzione e coesione nazionali”.

[18]Scrive Nadia Urbinati in la Repubblica del 10 febbraio 2009, p. 28: “È la difesa della democrazia la vera posta in gioco oggi. Perché se nell’antichità la democrazia era vista e pensata come governo dei poveri, le democrazie dei moderni si reggono su una larga classe media. La lotta non è pertanto tra un modello socialista e uno liberale, ma invece tra una società oligarchica o una società democratica. Forse è la prima volta che si sperimenta in maniera forte e chiara che la reale alternativa alla democrazia costituzionale è la tirannia dei pochi”…”La questione quindi non è tanto quella di opporre Stato e mercato per ridare all’esecutivo una funzione direttiva, come ripetono i proclami dei nostri ministri economici. Il problema è invece quello di recuperare appieno il valore della democrazia…”.

[19] S. Fiori, “Le  libertà oggi a rischio” – Intervista a Gustavo Zagrebelsky, in: Repubblica, 8 gennaio, 2009, p. 37.

[20] Cfr. M. Borrelli, Lettere a Kant. La trasformazione apeliana dell’etica kantiana, 1a ed., 2005, 2a ed. ampliata, Pellegrini, Cosenza, 2008.

[21] K.-O. Apel, Lezioni di Aachen e altri scritti, a cura, traduzione e presentazione di M. Borrelli, Pellegrini, Cosenza, 2004, p. 170.

[22] Scrive Habermas: “In uno Stato democratico di diritto, le lotte per il riconoscimento avranno forza legittimante solo nella misura in cui tutti i gruppi possono accedere alla sfera politica, far sentire la loro voce, articolare i loro bisogni, insomma solo nella misura in cui nessuno venga emarginato o escluso” (cfr. J. Habermas, Ein Gespräch über Fragen der politischen Theorie, in Die Normalität einer Berliner Republik, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1995; tr. it. a cura di D. L. Ceppa, Conversazione con Michael Carleheen e René Gabriels, in J.Habermas, Solidarietà tra estranei. Interventi su ‘Fatti e norme’, Guerini e Associati, Milano, 1997, p. 131.

[23] Cfr. J. Habermas, Moralbewußtsein und kommunikatives Handeln, Suhrkamp, Frankfurt a.M., 1983; tr. it. di E. Agazzi, Etica del discorso, Laterza, Roma-Bari, 3a ed., 2000, p. 99. Cfr. anche F. Caputo, Scienza pedagogica comunicativa: Jürgen Habermas, Pellegrini, Cosenza, 2003.

[24] Se seguiamo le impostazioni di Habermas e Apel, al discorso sono impliciti i seguenti presupposti: pretesa di senso intersoggettivamente valido (il suo assolvimento è premessa a tutte le altre pretese di validità); pretesa di verità (in quanto pretesa di consenso universale); pretesa di franchezza o di veridicità (che deve essere contenuta in ogni atto linguistico con cui si avanza una pretesa di validità); pretesa di giustezza normativa (moralmente rilevante e con cui si esige, dal partner della comunicazione, l’assenso a una pretesa di verità) (cfr. Lezioni di Aachen e altri scritti, cit., p. 89).

[25] Cfr. M. Borrelli, Ermeneutica trascendentale e fondazione ultima di filosofia e scienza. Introduzione al pensiero di Karl-Otto Apel, Pellegrini, Cosenza, 2008.