L'importanza della lingua tedesca nel linguaggio filosofico

Convegno promosso da Oxford Teaching ed emigrati.it

con il Patrocinio dell'Assessorato alla Cultura della Provincia di Crotone

 

In questa pagina pubblichiamo l'intervento di

Claudio Pirillo:

"Luce del Nord e Luce del Sud":

Hochgemüet-Humanitas

 

Claudio Pirillo

 

"Luce del Nord e Luce del Sud: Hochgemüt-Humanitas"

 

Brevissima relazione circa la “Luce del Nord e Luce del Sud”: Hochgemüet-Humanitas

Signore e Signori, Meine Damen und Herren,
mi sia permesso d’introdurre queste brevissime considerazioni con il ricordare un passo degli “Hymnen an die Nacht” di Friedrich von Hardenberg, noto come Novalis:

 

“Welcher Lebendige, Sinnbegabte, liebt nicht vor allen Wunderscheinungen des verbreiteten Raums um ihn, das allerfreuliche Licht - mit seinen Farben, seinen Strahlen und Wogen; seiner milden Allgegenwart, als weckender Tag. Wie des Lebens innerste Seele atmet es der rastlosen Gestirne Riesenwelt, und schwimmt tanzend in seiner blauen Flut-atmen es der Funkelnde, ewigruhende Stein, die sinnige, saugende Pflanze, und das wilde, brennende, vielgestaltete Tier -vor allen aber der herrliche Fremdling mit den sinnvollen Augen, dem schwebenden Gange, und den zartgeschlossenen, tonreichen Lippen. Wie ein Koenig der irdische Natur ruft es jede Kraft zu zahllosen Verwandlungen, knüpft und loest unendliche Bündnisse, hängt sein himmlisches Bild jedem irdischen Wesen um. Seine Gegenwart allein offenbart die Wunderherrlichkeit der Reiche der Welt“.

Orbene, non diversamente avrebbe cantato il vate indoeuropeo dei primordi, nel ricordare la fulgente luce illuminante le sedi iperboree, prima che la glaciazione di diecimila anni or sono le oscurasse. Questa URHEIMAT della grande, vasta, koiné indoeuropea di prima del cataclisma glaciale, era climaticamente avvolta da un’eterna primavera. La ricostruzione, su modelli matematici, di quel periodo astrofisico e geologico, lo ha dimostrato. Solare luce primaverile che la Wanderung indoeuropea avrebbe ricominciato a vedere prima flebile nell’Europa centro-settentrionale, poi più decisa nella Penisola italiana da nord a sud. A mio avviso, proprio questo intimo - e non mai sopito - desiderio di luce (senza la quale luce niuna forma visibile di vita è possibile) è stato l’impulso che ha spinto i nostri antichi progenitori indoeuropei a sud delle regioni artiche ormai glaciate: un desiderio di tensione metafisica ben oltre le mere necessità materiali. Il sacerdozio iperboreo percepiva la luce come drammatizzazione del divino, ed alla luce i riti erano rivolti con le conseguenti finalità.

Luce, dunque, come ipostasi delle potenze teurgiche iperuraniche: siamo su un piano rarefatto ma non per questo meno sentito. Col mutare delle condizioni ambientali la indogermanische Wanderung penetra in Italia dai passi camuni, e la popola fino all’estremo sud in successive ondate. L’incontro con popolazioni autoctone, ormai storicizzate sul territorio - se pure costituenti residui di primissime migrazioni indoeuropee, come nel caso dei Pelasgi e degli Etruschi, i quali hanno a simbolo l’ascia bipenne e la spirale iperboree - non sempre è pacifico. Ma ciò che importa è che i nuovi indoeuropei del XV secolo a.C., ritrovano in Italia quella luce nordica per loro smarrita. Costante tendenza alla chiarezza, alla linearità, all’ordine: sono le caratteristiche animiche di quegli indogermani italici che diventeranno Latini e Romani, nel mentre a nord -fra i ghiacci, in assenza di luce- si produce un imbarbarimento della precedente cultura. E’ il tempo del Ragna-roekkr, l’oscuramento del divino. I sacri mitologhemi dei Germani settentrionali ci dicono che il gigantesco lupo irrompe nel Walhalla, fa strage d’eroi ed ingoia la luce: il lupo e la luce scomparsa, inghiottita, sono la medesima cosa. Infatti, si consideri che luce e lupo hanno la stessa etimologia e sono, spesso, identificati.

La radice indoeuropea leuk, dà in latino lucus, l’antico tedesco loh, il tedesco moderno licht, l’inglese light, il lituano laukas, e loka (forza): nei poemi norreni e nibelungici Loki é il signore del lupo contrapposto agli Asen (l’indoeuropeo ans indica lo spirito divino). Lupo, luce, forza, sono uno: a nord, il lupo inghiotte la luce e s’identifica con lo stesso oscuramento, diventa sinonimo dell’assenza di luce; a sud, è ancora un lupo (nel caso specifico è una lupa nella sua funzione di nutrice di vita) protagonista, questa volta, della crescita e della vita dei due gemelli divini. Se si confronta il mito romano col poema germanico, ci si accorgerà non solo delle somiglianze ma anche delle conseguenzialità: la luce degli dei nordici offuscata dal gelo risplende al sud di nuova forza. Perciò il lupo, nelle culture indogermaniche è percepito sia come elemento negativo sia come datore di vita. E se nel mito romano il lupo e la luce sono la stessa cosa, anche in greco lupo e luce hanno lo stesso termine: lyké, lykos. Il lupo, peraltro, è compagno di Apollo iperboreo, come il cigno Hamsa, fedele naviglio dell’eroe solare Lohengrin di wagneriana memoria, il quale ripete nel nome (sanscrito) lo stesso respiro divino. Insomma, i due lupi sono i due aspetti del medesimo problema. Nietzsche avrebbe scritto: “Di là dal nord, dai ghiacci, dalla morte, la nostra vita, la nostra felicità”.

Di là dal nord, dai ghiacci, v’è il sud, il mondo italico, che conserva e perpetua la luce del nord in una veste più aurea e rubescente. I simboli dimenticati del nord, rivivranno fra gli indoeuropei del sud. Alle idi di febbraio i Romani celebreranno i lupercalia, festa del lupo, di luce, di fecondità, di purificazione.

Autori di spessore, come il Krahe, sosterranno pienamente la parentela strettissima fra la cultura italica e germanica ancora più stretta che non quella fra Celti e Germani. Ma la storia, si sa, non è solo maestra di vita. Essa, quale concretizzazione della ricerca umana, nel percorrere le sabbie del tempo crea separazioni, distanze, perdita di memorie. Cosicché, spesso, fratelli e sorelle, diventano acerrimi nemici come solo tra consanguinei accade. E’ accaduto così tra Germanici ed Italici (ormai storicizzati): soltanto un recupero corretto della memoria atavica riaffratella i due grandi popoli senza i quali non esisterebbe l’Europa.

“Facesti di genti diverse un unico popolo”, recita l’inno a Roma nel De Reditu di Namaziano; “Germania madre di popoli”, cantava Hoelderlin, alludendo alla URHEIMAT da cui già dal 2700 a.C. almeno, popoli parlanti ancora una certa indistinta URSPRACHE (la “alteuropaeischeSprache” del Krahe) migrarono verso il sud e l’est dell’Europa. Queste restanti genti degli indogermani d’Europa hanno ancora la loro lingua, non imposta da alcuna pseudo migrazione dall’est verso l’ovest poiché, secondo Hermann Hirt “Keinem Volke, das in den historischen Zeiten, in der suedrussischen Steppe gesessen hat, ist es gelungen, irgend welche Teile Europas seinem Sprach gebiet einzuverleiben.” Tesi, questa, condivisa dal nostro Giacomo Devoto. Un bellissimo dipinto di qualche decina d’anni fa, rappresenta le “due sorelle”: Italia e Germania affiancate che guardano con intenso sguardo e lirica, classica bellezza, il loro futuro. Nord e Sud subiscono ancora il desiderio di reciproca luce: desiderio interiore che mosse i Cesari alla conquista delle estreme regioni nordiche onde osservare, vivere la mistica esperienza del sole di mezzanotte. “Sitis” di luce che fece del barbaro Rutilio Namaziano l’ultimo grande vate dell’urbe eterna; che portò il Goethe, nei suoi viaggi, al pratico interesse verso l’ermetismo italico. E non diverso amore era infuso nel cuore di Gerhard Rohlfs, il più grande fra i moderni studiosi delle lingue di Calabria, quando pubblicò i suoi dizionari dei dialetti, dei nomi e toponimi calabresi.

Il grande amore per la luce del sud (dove solo il genio nordico poteva librarsi) condusse molti intellettuali germanici a viaggiare, soggiornare, morire in Italia: Goethe, Nietzsche Wagner, sono solo alcuni. Luce del nord alimentata, custodita in Italia, da quegli indogermani già divenuti Italici e Romani e che già come Pelasgi “aborigines”, possedevano il ricordo della patria di un tempo. Nel Medioevo Federico II di Svevia si presenta come “ultimo legittimo imperatore romano”, ed italiano per sua elezione e sensibilità: aveva in sé la maestà di Cesare e scriveva versi in italiano. Mommsen, Altheim, Krahe, Kossinna, Guenther, possono essere ricordati - fra i Germanici - come i più grandi studiosi di Roma e degli Italici. Gioacchino da Fiore è ben noto agli Accademici tedeschi. Lo Schoeps, scrisse che agli juenker prussiani, e nelle scuole militari prussiane, i valori pedagogici insegnati e praticati, erano quelli dello stoicismo di Seneca. Così salutava e ringraziava i Calabresi il Rohlfs: “A Voi fieri Calabresi che accoglieste ospitali me straniero nelle ricerche e indagini infaticabilmente cooperando alla raccolta di questi materiali dedico questo libro che chiude nelle pagine il tesoro di vita del vostro nobile linguaggio”. (Ringraziamento contenuto nel dizionario dialettale della Calabria). Questa è la vera sensibilità nordica.

In tedesco, civiltà in senso spirituale, è “Kultur”; in latino è “Cultura” ed “Humanitas”: cultura o coltura, in riferimento all’analogia con i “Mysteria”, mentre humanitas designa la sintesi dell’ethos con l’ethnos del civis. Indica l’aspetto interiore delle virtù. Societas è l’insieme ordinato ma materiale dei “socii”. In tedesco è “Zivilisation”, che indica l’aspetto materiale.

Io auspico, Signori, una Kultur, una Humanitas, in cui la ritrovata fratellanza delle due culture, italica e germanica, preluda alla ricomposizione e manifestazione di quell’Unica Luce Iperborea che volle avere - quale divina apollinea intronazione - il “Meridionale” e sommo Pitagora, maestro dell’Ineffabile.
 

VI RINGRAZIO.

 

Crotone, Novembre 2006