TOPOLOGIK.net ISSN 1828-5929 Numero 4/2008 |
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Alberto Martinengo
Demistificare l’origine, ricostruire l’ontologia Heidegger, Schürmann e il principio di anarchia
Discutere del contributo che la riflessione di Reiner Schürmann ha dato al dibattito contemporaneo sul “postmetafisico” significa prendere le mosse da una tesi che, nella sua generalità, si può ricondurre a una formulazione molto semplice: la tradizione filosofica occidentale si fonda sulla scelta programmatica di attribuire al pensiero, inteso come approccio puramente teoretico al mondo, una priorità indiscussa sui dispositivi pratici ed esistenziali. Lo stesso approccio descrittivo-oggettivante della metafisica non è che una conseguenza, forse la principale, di tale primato. È questo l’assunto centrale di Le principe d’anarchie (1982), l’opera che Schürmann dedica al pensiero di Heidegger e che al pubblico italiano è nota attraverso la traduzione di Gianni Carchia uscita nel 1995 per i tipi del Mulino1. Il merito principale della lettura di Schürmann, come chiarisce lo stesso Carchia nell’introduzione all’edizione italiana, è la rottura del paradigma interpretativo con cui tradizionalmente si fanno i conti con il percorso heideggeriano: quello secondo il quale l’evoluzione interna della filosofia di Heidegger mette capo a due fasi nettamente distinte, l’una incentrata sull’analitica esistenziale e l’altra, molto più magmatica, raccolta attorno alla nozione di “pensiero dell’essere”. Con molte buone ragioni, Schürmann si propone di mostrare che in Heidegger le cose non stanno esattamente così, o meglio che un modello interpretativo rigidamente bipartito non rende ragione della complessità delle questioni in gioco. Ciò che la bipartizione sembra dare per scontato è infatti l’idea che l’analitica del Dasein “trovi compimento” nella svolta degli anni ’30, attraverso l’abbandono dei residui umanistici – e dunque metafisici – che ancora connotano lo Heidegger di Sein und Zeit. Una lettura meramente evolutiva del pensiero heideggeriano rischia infatti di non cogliere la portata teoretica di questo percorso, riducendola a un fatto storiografico e, in certa misura, occasionale. Schürmann è radicale in tale rilievo, al punto da proporre un rovesciamento dei termini in questione: se di una lettura per gradi di Heidegger si deve in qualche modo trattare – questa è la sua tesi – il criterio logico per ordinare correttamente gli elementi è semmai opposto a quello cronologico. Che ne è infatti dell’approccio evolutivo, se proviamo a invertire la questione e a leggere lo Heidegger di Sein und Zeit a partire l’ultima fase del suo pensiero, anziché viceversa? In tale rovesciamento, ovviamente, non si tratta soltanto di capovolgere l’ordine degli addendi per verificare se e come il risultato non cambi. L’obiettivo di Schürmann è semmai far emergere per questa via una serie di questioni che nella lettura tradizionalmente “additiva” di Heidegger tendono a sfuggire. O meglio, lo scopo è dimostrare come una lettura troppo debitrice dell’analitica esistenziale, come elemento generatore dell’intero percorso, finisca fatalmente per lateralizzare lo sforzo categoriale dello Heidegger della Kehre, riducendolo a un tentativo di risistemazione (per continuità o per opposizione) di quegli elementi iniziali. Naturalmente, ciò non toglie che i temi e i toni in gioco nel percorso heideggeriano mutino e si complichino in modo radicale, a partire dagli anni ’30. Tuttavia, per Schürmann, se è necessario riconoscere un’organicità nel progetto filosofico di Heidegger, la questione della scansione in fasi andrà ripensata, sostituendo al paradigma bipartito tradizionale uno schema tripartito. L’obiettivo di questa diversa suddivisione è in primis ridurre la portata definitiva della Kehre degli anni ’30, che pure filologicamente non si può cancellare; ma, al tempo stesso, affiancarla a un’altra svolta, meno facilmente databile nella produzione heideggeriana, che tuttavia separa due modi diversi di intendere il pensiero dell’essere. In tal modo, accanto allo Heidegger dell’analitica esistenziale, bisognerà porre senz’altro un “secondo” Heidegger, quello dell’antiumanismo e dell’epocalità, e infine un “terzo” Heidegger che radicalizza l’antiumanismo sostituendo la nozione di epoca con quella di Ereignis. Ora, quanto sia difficile attestare una seconda Kehre, altrettanto dichiarata e netta della prima, è un problema di cui Schürmann è consapevole. E non a caso si tratta di un interrogativo che il suo lavoro lascia aperto sotto il profilo testuale. Tuttavia la prima mossa teorica importante, almeno in Le principe d’anarchie, è mettere alla prova questa triplice scansione, dandole un senso non soltanto diacronico, ma anche sincronico, in grado cioè di articolare la struttura formale del pensiero di Heidegger in generale, al di là della successione cronologica dei passaggi. È l’ontologia heideggeriana nel suo complesso a farsi leggere più agevolmente in una chiave triplice, anziché sul doppio registro Dasein/Sein: il che legittima, almeno in senso funzionale, l’ipotesi di leggere Heidegger “alla rovescia”, partendo dai testi in cui la seconda Kehre è meno nascosta. Che cosa ciò implichi, nel complesso del sistema heideggeriano, è particolarmente chiaro se si considera in chiave critica la centralità della nozione di Dasein, a cavallo tra gli anni ’20 e gli anni ’30. È indiscutibile infatti che dopo Sein und Zeit il primato dell’esistenza subisca un processo di decentramento che ne radicalizza la connotazione storica, nel senso di quella storia destinale che l’epocalità dell’essere avrebbe successivamente messo in luce. Ma l’epocalità dell’essere è soltanto la prima parola di un’ontologia più complessa che, secondo Schürmann, lo Heidegger “post-Kehre” ha in mente. Dire la positività dell’essere come epoca, come darsi storico di una determinata configurazione dell’essente, non può prescindere dall’elemento negativo e contrario, insito nell’epocalità stessa: ossia, come mette in luce l’etimologia del temine, la nozione di epoca come sospensione, come disponibilità di ciò che è a partire da ciò che non è. Senza questo passaggio, ridurre l’ontologia a una riflessione sui contesti di senso (le epoche, appunto) in cui si colloca l’essente significherebbe soltanto storicizzare la metafisica, mettendo in dubbio i requisiti di definitività che ogni “epoca dell’essere” pretende di detenere. Ma una riduzione di tal genere incorre a buon diritto nel sospetto di essere una lettura from nowhere: da dove mai potremmo affermare l’epocalità, intesa come relatività di ogni metafisica, se non collocandoci sub specie aeternitatis? E in secondo luogo che cosa vi sarebbe di ontologico in una pura catalogazione dell’essente, seppur resa dinamica dal succedersi delle epoche? La centralità del tema dell’Ereignis – per quanto sia affetta da tutto il carico auratico che il tardo Heidegger tradisce – risponde dunque all’insufficienza che ancora affligge la lettura strettamente “economica” della metafisica: una lettura che si limita a decostruire la metafisica, nel senso di riportare l’oikos di una certa “epoca dell’essere” al suo nomos, al suo principio fondante. Prospettiva puramente “economica” contro lettura evenemenziale dell’essere: è perciò questa, secondo Schürmann, la posta in gioco di Heidegger, dagli anni ’30 in poi. E ciò che la prospettiva evenemenziale dice in più sull’essere, rispetto alla nozione di storia epocale è precisamente il dispositivo che sta a monte della successione delle diverse economie storiche: qualcosa che, per usare una nozione ancora interamente da chiarire, sta all’origine della storia epocale e dunque, in ultima istanza, di ogni contesto di senso. Da questo punto di vista, la filosofia di Reiner Schürmann è davvero pensiero dell’origine, con tutta la carica di ambiguità e di fraintendimento che ciò comporta. Ma si tratta di un approccio al tema dell’origine che non ha nulla da spartire con le prospettive a cui usualmente questo genere di riflessioni dà corso in filosofia. Da una parte all’altra del suo pensiero, quello di Schürmann è soprattutto un esercizio a pensare l’origine demistificando l’origine stessa, fuori da ogni residuo enfatico che un discorso sull’originario come principio ontologico avrebbe. Sotto questo profilo, nell’originario di Schürmann, non vi è nulla che abbia a che fare con la prospettiva dell’origine in quanto “principio”. È questo il senso del titolo (volutamente paradossale) di Le principe d’anarchie, dove l’affiancamento tra i due termini opposti di principio e di anarchia è forse la definizione migliore della stessa nozione di origine. Se ci si volesse limitare al paradosso, si potrebbe dire infatti che l’origine di cui Schürmann parla rispetto all’Ereignis heideggeriano è lo “sfondo infondato di ogni fondamento metafisico”, l’assenza di principio che sta alle spalle di ogni positività dell’essere. Da qui la centralità della nozione di anarchia, anche al di là della connotazione esclusivamente politica, tipica dell’anarchismo contemporaneo; o, meglio, secondo una connotazione che è anche pratica e politica, ma solo nella misura in cui sia anzitutto una nozione ontologica. Tutto il percorso teorico che Schürmann compie attraverso lo Heidegger antiumanista è orientato dunque a scindere in modo netto la metafisica dell’arché, del principio come fondamento, da una nozione di origine intesa invece come articolazione anti-metafisica del pensiero dell’essere. Interviene a questo livello una distinzione che non si deve intendere in senso puramente nominalistico: quella che separa l’origine al singolare, ossia l’evento, e le origini al plurale, i principi fondanti di ogni metafisica e lato sensu di ogni economia del pensiero. Dietro alle origini come principio (metafisico, etico, politico, identitario), vi è insomma l’origine come fondamento infondato di tutto ciò che è. La scoperta di quest’origine infondata – l’origine originaria di contro alle diverse origini metafisiche – è per Schürmann la vera esperienza di pensiero dello Heidegger maturo. A orientare in tal senso l’interpretazione di Schürmann è il secondo asse portante della sua prospettiva filosofica: quello che fa capo alla sua riflessione su Meister Eckhart e sulla mistica renana, che già dieci anni prima di Le principe d’anarchie aveva trovato una sintesi in Maître Eckhart ou la joie errante (1971), un denso commentario di alcuni dei sermoni eckhartiani, che ora anche il pubblico italiano ha la possibilità di leggere in traduzione2. Non è insomma un caso che proprio il passaggio attraverso il pensiero mistico renano consenta a Schürmann di offrire una versione del tema dell’origine fuori da ogni tentazione oggettivante, o anche solo lontanamente enfatica. Nella lettura che, attraverso Meister Eckhart, Schürmann dà dell’Ereignis, è stata ormai estinta ogni traccia, anche solo residuale, di una “mitologia dell’essere”, di una visione “aurorale” dell’origine: non dunque una mistica dell’originario, in cui la metafisica è superata in direzione della fusione assoluta di ogni principio, bensì un’ontologia dell’evento alleggerita da qualsiasi residuo sostanziale. Come ciò avvenga in concreto, nella prospettiva di Schürmann, è chiaro se si connette il tema dell’anarchia con quello che, non a caso, all’inizio indicavamo come il suo apporto più originale alla discussione sul “postmetafisico”, ossia l’idea che il fondazionalismo sia l’altra faccia della priorità del teoretico sul pratico, primato che appare irrimediabilmente compromesso con la visione metafisica del mondo. L’ipotesi alla base della lettura “anarchica” di Heidegger è insomma – giova ribadirlo ora – l’idea che l’Ereignis, inteso come origine dell’essere, sia soprattutto il principio di confutazione di ogni altro principio. Da questo punto di vista, Schürmann sostituisce al modello fondativo della metafisica qualcosa di molto differente, che ha a che fare piuttosto – e qui il riferimento è nuovamente alla mistica renana – con il “lasciar-essere”, ossia con una specifica relazione che l’Ereignis e gli enti puramente e semplicemente presenti intrattengono nel loro reciproco articolarsi. Se infatti le epoche sono i contesti al cui interno l’essente si produce in configurazioni di senso, questo “venire all’essere” di un mondo di significati non ha le proprie ragioni se non nel darsi stesso dell’evento: il semplice passaggio dal non-essere all’essere è l’unico fondamento ancora pensabile dell’essente; un fondamento che a sua volta è nient’affatto fondante, giacché l’evento non ha alle sue spalle altro che lo legittimi3. In questa complessa fenomenologia dell’origine, che è certamente debitrice dell’impostazione heideggeriana, almeno un dato deve essere chiaro: quando mette a fuoco l’evento, il pensiero non incontra un “super-ente” in cui si radica tutto ciò che è, bensì si imbatte in una sorta di mobilità originaria, attraverso la quale l’essere “lascia essere” gli essenti. Il vero tema della svolta heideggeriana è l’evento anarchico che, invece di fondare i fenomeni, li abbandona alla presenza. In questo senso Schürmann, fedele alla linea anti-umanista dell’ultimo Heidegger, rilegge la questione della Kehre in chiave destinale: il lasciar-essere è in primis una deteminazione dell’evento; ma se il pensare è a sua volta in grado di rinunciare al modello fondativo, ciò non può che accadere nel senso di un analogo lasciar-essere del pensiero. Si potrà dunque dire che l’essere e il pensiero coincidono nell’evento del lasciare. È questo uno dei caratteri distintivi della lettura antiumanista di Schürmann. Ed è una svolta che egli mette in relazione sempre più esplicita con la componente eckhartiana sottesa dal pensiero heideggeriano. Fin qui però non si è ancora detto tutto. Almeno due problemi restano indeterminati: quali siano le condizioni per parlare a buon diritto (come Schürmann e Heidegger ritengono di poter fare) di una verità del pensiero, anche in chiave postmetafisica, e come avvenga questo passaggio dalla nozione metafisica di verità a qualcosa di necessariamente diverso dal modello dell’adaequatio. Sul primo aspetto, Schürmann approfondisce il tema heideggeriano (ed eckhartiano) della Gelassenheit. Il pensiero dell’evento è quella struttura (lato sensu esistenziale) di cui l’Ereignis “si appropria” e che assume conseguentemente la forma dell’abbandono. Tuttavia, nonostante si basi su un rapporto di coappartenenza tra Ereignis e Denken, la svolta del pensiero oltre i confini della metafisica non può in alcun modo essere data per scontata, in virtù di un qualche principio di necessità. Nell’ambito della metafisica il rapporto tra noesi e noema non fa problema: il pensiero non può che corrispondere a una verità dell’essere che è già accaduta, a una economia epocale già data. “Sempre e ovunque – scrive Schürmann parafrasando lo Heidegger di Der Ursprung des Kunstwerkes – noi rispondiamo ad una verità ‘che è già accaduta’. Non è più l’uomo ad ‘aprire’ una radura, a ‘proiettare’ luce sugli enti, a ‘risolvere’ il mondo rivelandolo, bensì è l’aletheia storica che costituisce l’uomo situandolo”4. Ma si dà il caso che nella Kehre non sia più in gioco la risposta, da parte del pensiero, a una economia data, bensì il passaggio alla condizione di possibilità di ogni epocalità. Al pensiero è dunque richiesta una prestazione del tutto diversa: disabituarsi alla relazione fondativa della metafisica e saltare direttamente all’Ereignis. In questo senso – spiega Schürmann – pensare non significa più garantire un ordine epocale determinato, ma seguire e assecondare il venire alla presenza: a imporsi non è più la forza cogente di un nuovo stampo; ed è questo il motivo fondamentale per cui la possibilità del pensiero “post-metafisico” può restare disattesa. Nella metafisica il pensiero è fondazionale perché risponde all’essere che si dà come fondamento ultimo. Quando invece si concretizza la possibilità della “svolta post-metafisica”, pensare significa affrontare una sfida totalmente differente: quella di corrispondere al darsi dell’essere, abbandonando una volta per tutte il modello della fondazione. Alla concettualizzazione, intesa come sussunzione del particolare sotto l’universale, si sostituisce l’apertura a ciò che si dà nella sua singolarità. L’“abbandono” è la parola chiave che unifica l’evento, la storia epocale e il pensiero. Ma che cosa ne è di tale unità, posto che non la si possa mai dare per acquisita dal pensiero che esce dalla metafisica? Per chiarire questi aspetti Schürmann compie un percorso piuttosto lungo, che affronta l’altro grande nodo che la metafisica lascia irrisolto: si tratta infatti di capire come tale passaggio dall’epocalità all’Ereignis avvenga in concreto. Se il sostanzialismo è il pensiero che totalizza l’ente sotto categorie date, le gerarchie a cui esso dà corso non sono soltanto un problema di concetti, ma riguardano più in generale il modo in cui il soggetto sta al mondo. In altri termini, se vi è una gerarchia “nel pensiero” (per esempio la divisione aristotelica tra sostanza e accidenti, o le distinzioni tra vero e falso, chiaro e oscuro, alto e basso, ecc.), vi è anche una gerarchia “del pensiero”, una gestione del soggetto a partire da facoltà e funzioni fondanti, alle quali sono sottomesse le facoltà e le funzioni subordinate. Se esistono una filosofia prima e una platea più o meno ampia di filosofie seconde, ciò non dipende da altro se non dall’idea che il pensiero è ciò che fonda, e tutto il resto deriva per questa via dal pensiero. Secondo Schürmann, qualcosa di molto diverso accade dopo la fine della metafisica. Posto che all’epoca della Kehre l’imperativo del pensiero consiste nel rifiuto della fissità dell’ente a vantaggio delle fluttuazioni proteiformi dell’evento, allora l’attaccamento alle strutture fondazionali non può mai essere soltanto un affare del Denken: l’attitudine teoretica a gerarchizzare gli enti e l’abitudine pratica a disporre di essi sono inscindibili. Perciò nell’ipotesi della svolta non ne va soltanto della possibilità di un altro pensare, ma anche di un altro agire e stare al mondo. Al tempo stesso, l’anarchia mette preventivamente fuori gioco ogni possibile determinazione “post-metafisica” della vita a partire dal pensiero. Fin dalle prime pagine, Le principe d’anarchie parla di un’analisi radicale che stabilisca “ciò che accade del vecchio problema dell’unità tra pensare e agire, una volta che ‘pensare’ non significhi più assicurarsi un fondamento razionale sopra il quale disporre l’insieme di ciò che è conoscibile”, un’analisi che chiarisca che cosa ne sia del problema dell’azione una volta che “agire non significhi più conformare le proprie iniziative quotidiane, tanto pubbliche che private, al fondamento così stabilito”5. La metafisica può ancora credere che, posto un fondamento teorico ultimo, tutto ne discenda (ontologicamente, logicamente, geometricamente), tanto nell’essere quanto nell’agire. Al contrario, l’assenza di archai connotabili nel senso dell’ultimità e definitività mette in discussione il modello tradizionale di gestione della praxis. La cancellazione dello schema metafisico del sapere è così radicale che la derivazione dell’esistenza dal principio teoretico dell’essere non soltanto è messa fuori gioco, ma finisce per essere capovolta. Questa è la chiave del discorso di Schürmann su Heidegger: il lasciar-essere dell’Ereignis è afferrato dal pensiero soltanto nella misura in cui sia assunto dalla totalità dell’esistenza. Schürmann richiama in tal senso ciò che Sein und Zeit dice sul primato dell’autenticità rispetto alla domanda sull’essere: l’oblio dell’essere può essere superato, soltanto se recuperiamo uno stato di perplessità (pratico-esistenziale, prima che teoretica) rispetto alla parola “essere”; una dimensione tipicamente non filosofica deve essere risvegliata affinché il pensiero recuperi se stesso dall’oblio. Ma ciò vale più in generale per l’azione, via via che il discorso di Heidegger si approfondisce dopo Sein und Zeit. L’agire, privato di un fondamento razionale a cui rendere conto di sé, non soltanto si scopre anarchico, ma diventa la condizione stessa dell’anarchia del pensiero: da conseguenza pratica di criteri stabiliti speculativamente, l’agire si trasforma in condizione di possibilità per l’anarchia del pensiero. Al dispositivo fondazionale del tipo “essere, ergo pensiero, ergo azione”, la Kehre sostituisce insomma un atteggiamento anarchico, nel senso dell’attiva disponibilità a depotenziare i costrutti di senso assoluti. Il che significa, per Schürmann, la possibilità di cogliere la portata emancipativa – e dunque radicalmente pratica – dell’ontologia heideggeriana: l’essere è tempo, nella misura in cui il Dasein si disponga attivamente a dissolvere le cristallizzazioni residuali della storia epocale.
1 Le principe d’anarchie. Heidegger et la question de l’agir, Paris, Seuil, 1982; ediz. inglese riveduta, Heidegger on Being and Acting. From Principles to Anarchy, a cura di C.-M. Gros, Bloomington, Indiana University Press, 1986; trad. italiana, Dai principi all’anarchia. Essere e agire in Heidegger, a cura di G. Carchia, Bologna, Mulino, 1995. 2 Maître Eckhart ou la joie errante. Sermons allemands traduits et commentés par Reiner Schürmann, Paris, Planète, 1972 (nuova ediz. 2005, Paris, Rivages); ediz. inglese ampliata, Meister Eckhart. Mystic and Philosopher, Bloomington, Indiana University Press, 1978; nuova ediz. inglese riveduta e ampliata, Wandering Joy. Meister Eckhart’s Mystical Philosophy, Great Barrington, Lindisfarne Books, 2001; trad. italiana, Maestro Eckhart o la gioia errante. Sermoni tedeschi tradotti e commentati, a cura di Michele Sampaolo, Roma-Bari, Laterza, 2008. 3 Per una trattazione più estesa del tema del lasciar-essere e delle questioni che seguiranno, mi permetto di rinviare alla mia Introduzione a Reiner Schürmann, Meltemi, Roma, 2008, cap. 2, che contiene una formulazione più ampia degli argomenti discussi qui. 4 R. Schürmann, Dai principi all’anarchia. Essere e agire in Heidegger , tr. it. cit., p. 149. 5 Ivi, p. 23. |
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